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Falcone, l’uomo che fu lasciato solo

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Si muore perché si è soli o si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno“.

È il 23 maggio 1992, quando alle 17:56, sull’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, 5 quintali di tritolo distruggono le auto blindate di Giovanni Falcone e della sua scorta. Nella ricorrenza di questo triste anniversario, ci chiediamo: chi era questo magistrato simbolo e perché é stato ucciso in modo così efferato

Per rispondere alla prima domanda è necessario ripercorrere la sua vita. Giovanni Falcone cresce nella kalsa, un quartiere di Palermo abitato da professori, commercianti ed esponenti della media borghesia. Nel libro di Francesco la Licata Storia di Giovanni Falcone, il magistrato parla di un padre austero ed una madre autoritaria: “con 7 e 8, la mia pagella veniva considerata brutta”. Frequenta il liceo classico e dopo la maturità, entra all’Accademia militare di Livorno, poi ci ripensa e si iscrive a Giurisprudenza laureandosi a pieni voti. L’anno successivo alla laurea, nel 1940, conobbe Rita, con cui si unì in matrimonio. Fu pretore a Lentini (Siracusa) e, successivamente, a Trapani, dove cominciò a conoscere la realtà della mafia.

1978: Falcone viene trasferito a Palermo, dove lavora al processo del costruttore edile Rosario Spatola, accusato di associazione mafiosa. Questo processo mette in luce le sue qualità: conduce l’istruttoria con metodi innovativi, che introducono indagini bancarie e societarie. Contemporaneamente, a Palermo, negli stessi anni, molti indagati appartenenti alle cosche spariscono misteriosamente: tra l’81 e l’82, 1.200 morti vanno ad assottigliare le file delle cosche nemiche, e si scopre che dietro questi omicidi, ci sono i “viddani” (contadini) di Corleone con a capo Totò Riina, detto “il capo dei capi”.

1982: Cosa Nostra dichiara guerra allo Stato. La mattina del 30 aprile, Pio la Torre, segretario regionale del Partito comunista e membro della commissione antimafia, viene trucidato. Per rispondere a quest’attacco il governo invia in Sicilia il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, già protagonista della lotta alle Brigate rosse, ma il 3 settembre anche il generale viene ucciso insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro. Totò Riina é in cerca di uno scontro frontale con lo Stato e il 29 Luglio 1983, uccide ancora: con un’autobomba viene trucidato il capo dell’Ufficio Istruzione dei Palermo, Rocco Chinnici (che stava anche indagando sull’assassinio di Peppino Impastato).

1983: Lo risposta dallo Stato non si fa attendere: il Consiglio Superiore della Magistratura invia in sostituzione di Chinnici, Rocco Caponnetto, 63 anni, noto per la sua serietà professionale, anche se inesperto di processi per mafia. A lui si deve l’dea di creare un “pool di magistrati” antimafia, allo scopo di proteggere l’operato e mitigare il rischio dei “singoli”. Del pool farà parte lo stesso Falcone e successivamente Giuseppe Di Lello Finuoli (esperto in processi di mafia); seguiranno, Paolo Borsellino e Leonardo Guarmotta, procuratore di pluriennale esperienza. Il lavoro del pool, inaugura la stagione dei pentiti, a partire da Tommaso Buscetta (“Don Masino”), che nella guerra contro Totò Riina, aveva perso sette familiari, tra i quali due figli. Il trafficante di droga viene arrestato in Brasile: estradato, chiede di collaborare ma, parlerà solo con Giovanni Falcone, che considera il numero uno del pool. Tra l’84 e l’85 la “stagione dei pentiti” porterà al cosiddetto “maxiprocesso”. Col pentimento di Buscetta si arriverà, il 29 Settembre 1984, a spiccare 366 mandati di arresto: grazie alla sua collaborazione si conoscono, finalmente, struttura, tecniche di reclutamento e funzioni di Cosa Nostra.

1985: la reazione di Riina e le prime perplessità dello Stato – Il 28 Luglio 1985, la mafia reagisce a questi arresti uccidendo Beppe Montana, capo della sezione latitanti a Palermo e, poco dopo, Ninni Cassarà, vicebrigadiere e stretto collaboratore di Falcone. Lo Stato comincia e temere un intensificarsi degli attentati, così, nel cuore della notte, in piena estate, trasferisce Falcone e Borsellino, con le rispettive famiglie, all’Asinara, dove possono concludere la preparazione del maxiprocesso e l’istruttoria che sarà depositata l’8 novembre. Ma accade qualcosa di inaspettato: dopo 33 giorni lo Stato, quasi beffandosi dei magistrati, presenta loro un conto di 415.800 lire per 33 giorni di soggiorno all’Asinara. Il lavoro dei magistrati darà comunque i suoi frutti e il 10 febbraio 1986, ha inizio il più grande attacco alla mafia con il maxi-processo di 475 imputati. A maggio, terminato il processo, Paolo Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica a Marsala (promoveatur ut amoveatur?) e il pool comincia così ad indebolirsi.

1987, dal 16 dicembre si parlò di “inizio della fine di Falcone”. Il maxi-processo si chiude con 360 condanne e 114 assoluzioni. Caponnetto rientra a Firenze, convinto che il suo successore capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo sarà Giovanni Falcone ma, in realtà, il nuovo assetto politico-istituzionale, col Ministro della Giustizia socialista Vassalli (sfavorevole al programma di protezione dei pentiti), il 19 Gennaio 1988 porterà alla nomina di Antonino Meli, anziano e incompetente, come successore di Caponnetto, bocciando Falcone. Lo stesso Caponnetto dirà: “da quel giorno Falcone ha iniziato a morire”. Meli assegna le inchieste per mafia a magistrati esterni al pool e quelle per borseggi e scippi a Flacone e ai suoi colleghi. Borsellino in un’intervista all’Unità dirà: “Ho l’impressione di grandi manovre per smantellare il pool antimafia”. Falcone, sempre più isolato, subisce l’ennesima bocciatura, questa volta per la candidatura ad Alto Commissario per la Lotta Antimafia (il governo nominerà in sua vece Domenico Sica). Ancora: candidato al CSM, non viene eletto e viene anche accusato di gestione discutibile dei pentiti; inoltre, nell’89, subisce un attentato che per fortuna viene sventato. Con l’ulteriore aggravarsi di rapporti con Meli (che “disperde” le indagini mafiose affidandole alle procure territoriali competenti) Falcone si vede costretto a chiedere di essere destinato ad altro ufficio e diventa Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica. Con questa funzione sostiene la nomina di Piero Giammanco a procuratore capo di Palermo, ma viene da questi stesso allontanato e ostacolato. Ancora: viene accusato da Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e suo amico, di tenere per sé prove sui politici mafiosi. In conclusione, un periodo veramente difficile per Giovanni Falcone che nel ’91 decide di accettare la proposta, dell’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli, di lasciare Palermo per la direzione degli Affari Penali a Roma. In questo ruolo continua a lavorare contro la mafia e istituisce la “rotazione” dei Giudici della Corte Suprema allo scopo di allontanare il Presidente della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (Corrado Carnevale, detto “l’ammazzasentenze”) che, scarcerando gli imputati di Cosa Nostra, rendeva vano l’esito del maxi-processo. In quel periodo, la Cassazione riconfermò le condanne del maxiprocesso, Borsellino ritornò a Palermo come procuratore aggiunto con un ruolo direttivo anti-mafia e il governo approvò un piano di Falcone per riorganizzare la lotta a Cosa Nostra. Eppure, nonostante la sua determinazione, Giovanni Falcone era sempre più solo all’interno delle istituzioni. Nell’intervista del ’91 rilasciata a Marcelle Padovani (nota giornalista francese che si occupa della vita politica italiana) Falcone, anticipando la profezia sulla sua fine, sostiene che “si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Il 12 maggio dello stesso anno, 11 giorni prima dell’attentato, ospite di un convegno Adnkronos sulla droga, riceve un “pizzino” con presagi di morte, in quell’occasione dichiarò: “mi hanno delegittimato, stavolta i boss mi ammazzano”. Il 23 maggio rientrava da Roma a Palermo, come era solito fare nei fine settimana. Alle 17:56, sull’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, 5 quintali di tritolo distruggono le auto blindate di Giovanni Falcone. Con lui persero la vita la moglie Francesca Morvillo, 46 anni, sorella di Alfredo Morvillo sostituito procuratore che fece parte del pool antimafia e 3 agenti della sua scorta. Erano: Rocco di Cillo, 30 anni di Triggiano, nella scorta di Falcone dal 1989; Antonio Montinaro, 30 anni, di Calimera, da poco inviato in Sicilia e temporaneamente assegnato al servizio scorte di Falcone; Vito Schifani, 27 anni, di Ostuni, che guidava la prima delle 3 auto: lasciò la moglie Rosaria e un figlio di 4 mesi.

La riposta alla seconda domanda (perché Falcone é stato ucciso in modo così efferato?) si intuisce, tra l’altro, da una delle sue frasi, dalla quale traspare il forte senso di giustizia e difesa dei deboli e degli onesti: La mafia non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un’associazione di mutuo soccorso, che agisce a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri”. Il sacrificio di Falcone non è stato vano: i suoi studi hanno dimostrato che la mafia, per esistere, ha bisogno della collaborazione dei poteri forti, da esercitare nei confronti dei deboli che, per questo, saranno sempre dei “sudditi” piuttosto che liberi cittadini. Per diffondere questo messaggio, Caponnetto, negli ultimi anni della sua vita, gira le scuole d’Italia e racconta la storie di eroi come Falcone e Borsellino, che hanno lottato a testa alta e consapevolmente perso la vita, per difendere questi ideali.

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Coppa Italia TPRA (Federazione Italiana Tennis-Padel) al Club La Tartaruga

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Il settore Tpra della FITP (Federazione Italiana Tennis e Padel) presenta la “Coppa Italia TPRA Tennis 2025”

L’obiettivo è quello di coinvolgere nell’attività, NUOVI giocatori amatoriali, quindi anche nuovi tesserati, coinvolgendoli tramite i circoli, i maestri etc.

Come sappiamo, il fattore squadra, spesso rappresenta una forte motivazione alla partecipazione.

La formula è molto coinvolgente:

– 1^ FASE REGIONALE. 

FASE PROVINCIALE. Le prime 2 squadre di ogni girone accederanno al tabellone ORO, le altre al tabellone ARGENTO.

MASTER PROVINCIALE. Si giocherà con tabellone ad eliminazione diretta in entrambe le categorie ORO e ARGENTO. Le squadre finaliste dei tabelloni accederanno al Master Regionale.

MASTER REGIONALE. Si giocherà con tabelloni ad eliminazione diretta in entrambe le categorie ORO e ARGENTO. Le squadre vincitrici accederanno al Master Nazionale.

– 2^ FASE NAZIONALE

Si giocherà con tabelloni ad eliminazione diretta in entrambe le categorie ORO e ARGENTO.

Il Club La Tartaruga, Presieduto da Lucia Scrima, partecipa alla Coppa Italia categoria femminile competizione che prevede la disputo 2 singolari e un doppio al meglio di tre set ai 6 games con “vantaggio Tpra” e tie-break a 7 punti sul punteggio di 5 giochi pari, in sostituzione dell’eventuale terzo set si disputa un match tie-break a 7 punti.

Domani domenica 23 febbraio 2025 alle ore 10:00 si disputa la prima giornata sui campi in sintetico di Contrada Carpiniello le ragazze del Club La Tartaruga affrontano il TC Cesinali.

Il Club La Tartaruga Ariano Irpino schiera Manuela Leo (capitano) – Graziella Barrasso – Federica Capobianco – Veronica Di Maggio  – Greta Fino – Giuseppina Florenzano – Roberta Morelli e Raffaella Zecchino. 

Il Panathlon Club Ariano Irpino, Associazione Internazionale Benemerita del Coni che promuove l’etica e la lealtà nello Sport,attribuirà il premio “Fair Play” al termine delle varie fasi della Coppa Italia.

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Forza Italia Ariano incontra il Ministero della Giustizia : passi avanti per la riapertura di un secondo Tribunale in provincia di Avellino

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Roma, 17.02.2025– Una delegazione di Forza Italia di Ariano Irpino, guidata dal Segretario cittadino Avv. Giancarlo Giarnese e composta dagli Avv. Giancarlo Di Gregorio, Avv. Crescenzo Perrina e Arch. Alessandro Moschillo, è stata ricevuta questa mattina al Ministero della Giustizia dal Capo di Gabinetto del Ministro Nordio, Dott.ssa Bertolozzi. Al centro dell’incontro, la possibilità di riaprire un secondo tribunale in Provincia di Avellino.

Durante la riunione, la delegazione irpina ha presentato una relazione dettagliata sul progetto, accompagnata dal deliberato dei Sindaci dell’Area Vasta adottato il 13 febbraio scorso. Un documento che testimonia il forte sostegno istituzionale e territoriale all’iniziativa.

Dal confronto è emersa una notizia di grande rilievo: il Governo sta lavorando a un Progetto di Legge che, oltre a stabilizzare i tribunali abruzzesi, prevederà la riapertura di quattro tribunali soppressi nel 2012 e conferirà una delega all’Esecutivo per individuare i criteri utili alla riattivazione di altre sedi giudiziarie, con particolare attenzione alle aree interne.

La volontà dell’Esecutivo di superare la riforma della geografia giudiziaria del 2012 rappresenta un segnale positivo per il territorio irpino. Il Capo di Gabinetto ha già fissato un nuovo incontro dopo l’estate per discutere più concretamente della proposta di un secondo tribunale in provincia di Avellino.

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Attività Libero Professionale Intramoenia (ALPI), il grimaldello per privatizzare la Sanità

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Le liste di attesa sono la fotografia del Sistema Sanitario italiano, finanziato con prelievi fiscali sui redditi dei pensionati, lavoratori e liberi professionisti, eroga prestazioni sanitarie in tempi biblici, anche otto /nove mesi, che compromettono le condizioni di salute della persona ammalata. Tant’è, che, il cittadino, per ottenere prestazioni sanitarie in tempi ragionevoli, si rivolge all’Attività Libero Professionale Intramoenia (ALPI) che, in regime ambulatoriale, eroga prestazioni specialistiche e/o attività diagnostico strumentale, interventi chirurgici in regime di ricovero ordinario o di Day Hospital/Surgery, prestate dal personale della dirigenza medica e sanitaria in regime di esclusività. Per incanto nello stesso ospedale, reparto, ambulatorio e l’identico medico la prestazione sanitaria viene erogata in poche settimane, imponendo al cittadino di pagare tra le 100/120 euro che in regime ordinario, se fosse esente dal pagare il ticket sanitario, sarebbe stata totalmente a carico del SSN. Forse la mancata riduzione dei tempi di attesa per le visite specialistiche va trovata nella volontà di introdurre, in modo silente, non certo in punta di piedi, la privatizzazione del SSN? Giulio Andreotti, affermava: “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Le liste di attesa sono il tema irrisolto sul quale si è cimentato in estate il governo Meloni, ben sapendo che il personale sanitario è sotto organico, sono insufficienti le risorse finanziarie per gli straordinari, è inadeguata la protezione dalle aggressioni degli operati sanitari nei reparti del pronto soccorso. Nel frattempo milioni di cittadino, pur esenti da ticket sanitario, sono sottoposti ad ulteriori esborsi di denari che il rapporto della Fondazione Gimbe/2024 e l’ISTAT/2023, hanno quantificato nella percentuale del 26%, con spese dirette o intermediate, quest’ultime erogate dalle assicurazioni sanitarie. Il piano del governo è chiaro: ridurre la presenza dello Stato a tutto vantaggio della sanità privata e delle assicurazioni sanitarie. Non possiamo rimanere con le mani in tasca, bisogna impedire la lenta agonia del SSN.

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