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I campi di Tullio, storia di un Internato Militare Italiano, ribellatosi al fascismo

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“Mio padre era un uomo mite, e come molti, contrario alla guerra, nella quale si trovò coinvolto appena diciannovenne”. Lo racconta Luigino Ciotti, suo figlio, che gli ha dedicato un libro per ricordarne la vicenda di Internato Militare Italiano (IMI), termine con cui Hitler definiva i combattenti italiani prigionieri di guerra, che rifiutatisi di aderire alla Repubblica di Salò, venivano deportati in campi di lavoro tedeschi, per essere utilizzati come veri e propri schiavi, sia nei campi, sia nelle fabbriche, nei settori più disparati, dalla produzione dello zucchero agli armamenti. I prigionieri dei tedeschi furono almeno 650.000, sottoalimentati e decimati dalle malattie: circa 50.000 non fecero più ritorno. Definirli IMI fu il modo per eludere la Convenzione di Ginevra del 1929, annullando così i loro diritti fondamentali sul tipo di lavoro, sulla quantità e qualità del cibo, la comunicazione con le proprie famiglie, il diritto alla salute e alla vita. Vittima degli ingranaggi della macchina della storia, Tullio Ciotti a tre mesi dalla chiamata alle armi, la sera dell’8 settembre 1943, fu catturato a Roma dai tedeschi, prima trasferito nel centro di raccolta per prigionieri di Ostia, poi rinchiuso con altri 35 militari in un carro bestiame e, dopo un estenuante viaggio di cinque giorni e sei notti, lacero e affamato, internato nel primo campo di Kurtwitz (Kondratowice), nella Polonia occupata. Finì in seguito nei campi di Strehlen, Sagan e Gorlitz e rischiò anche la vita, quando per un ascesso, subì un’operazione all’orecchio: lo salvarono le cure di un altro internato, il fante della piana di Assisi Enrico Cotozzolo, che sarebbe diventato suo grande amico. Sopravvivere nei lager era un’impresa: fame, freddo, angherie, malattie, molte regole e per di più vessatorie, su ogni aspetto, dal modo in cui rivolgersi ai superiori, al comportamento durante il lavoro, nelle baracche, per la posta, che, proibendo al detenuto di parlare delle condizioni del campo, delle malattie, della disinfestazione e delle domande di congedo, “verrà consegnata o spedita solo dopo essere stata censurata. I detenuti dei campi di concentramento, senza considerazione di età, origine e rango, sono posti in condizione di subordinazione e obbligati a obbedire immediatamente e senza discutere agli ordini dei loro superiori, sia che si tratti di detenuti agli ordini degli agenti di inquadramento delle imprese SS […], sia dei detenuti incaricati di mantenere l’ordine nel campo […]. Ogni membro delle SS è un superiore. Ci si deve rivolgere a loro con gli appellativi di “Herr Kommandant, Her Lagerfuhrer, Herr Rapportfuher […]. Il campo è circondato da un recinto di filo percorso giorno e notte da corrente elettrica ad alta tensione. Chi si introduce nella zona neutra si espone a che gli si spari addosso senza intimazione. Ogni reato contro il regolamento dev’essere denunciato senza indugio. Specialmente chi sorprenda qualcuno a preparare o a concentrasi su un tentativo d’evasione deve subito farne denuncia”. Tullio era sopravvissuto grazie a uno spirito intraprendente e tenace. Erano trascorsi 18 mesi, quando il 7 maggio 1945, venne liberato dalle truppe sovietiche: il suo peso si era ridotto a 35 chili! Senza attendere i tempi del rimpatrio ufficiale, insieme ad altri venticinque ex internati decise di tornare al più presto a casa. Al termine di un lungo e avventuroso viaggio attraverso mezza Europa, giunse finalmente a Passaggio di Bettona (PG), il 9 giugno 1945. Suo figlio Luigino, dopo averlo intervistato anche attraverso un documentario, ne ha riportato l’avventura insieme allo storico Dino Renato Nardelli, in un libro-testimonianza dal preciso messaggio: “è la contrarietà a tutte le guerre, non esistono le guerre giuste. Far conoscere ciò che è accaduto e scongiurare che si ripeta, è ciò che mi sono prefisso diffondendolo, anche con le presentazioni nelle scuole. La trasmissione della memoria, in particolare ai giovani, che nulla sanno della storia degli IMI, è un obiettivo al quale lavorare. I ragazzi della terza B della scuola secondaria di Passaggio di Bettona, paese natale di mio padre (ndr: morto il 13-12-2011), che con questa storia sono arrivati terzi al concorso “Cronisti in classe”, lanciato da “La Nazione”, hanno scritto una lettera che racchiude un messaggio di speranza per il futuro. Capire il passato serve per vivere meglio il presente”. Il libro, il cui ricavato sarà devoluto ad Ong umbre e alle reti di associazioni Colombia vive!, è stato presentato presso il Circolo della stampa di Avellino, con il Presidente provinciale dell’ANPI Giovanni Capobianco, il presidente dell’AUSER, Mimmo Limongiello e l’autore, Luigino Ciotti.

Dino Renato Nardelli – Luigino Ciotti I campi di Tullio. La storia di un Internato Militare Italiano Ed. Era Nuova e Circolo culturale Primomaggio pagg.70 € 10

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Giornata delle Forze Armate – Il 4 Novembre ad Ariano la cerimonia per il Giorno dell’Unità Nazionale

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L’Amministrazione Comunale di Ariano Irpino, in una sobria e solenne cerimonia, vuole  commemorare i Caduti di tutte le Guerre, rendere omaggio alle Forze Armate, celebrando la Festa dell’Unità Nazionale, in ricordo della fine della prima Guerra Mondiale.

Appuntamento lunedì 4 novembre 2024 alle ore 10,00 al Piano della Croce presso il Monumento ai Caduti dove, alla presenza delle Autorità Civili, Militari e  Religiose, verrà   deposta la   Corona di alloro, sulle note dell’Inno Nazionale.

Una  Corona di Alloro verrà deposta anche davanti al busto di Giulio Lusi in Villa Comunale e nell’atrio di Palazzo di Città.

Il messaggio istituzionale  è rivolto alle nostre giovani generazioni, per non dimenticare  i nostri Caduti in Guerra, morti per gli ideali risorgimentali di indipendenza, di libertà, di democrazia che hanno determinato l’Unità d’Italia ed esprimere riconoscenza per coloro che ancora oggi rischiano la vita al Servizio della Comunità.

La cittadinanza  è invitata a partecipare.

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Roberto Zaffiro: vi racconto la mia Africa e vi invito a diventare benefattori

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Imprenditore nel settore edile (azienda di dieci dipendenti), insieme ad altri due fratelli, sposato e con due figli, Roberto Zaffiro, con il pieno sostegno della famiglia, si dedica anima e corpo alla missione che lo appassiona e gratifica di più: dalla costruzione di pozzi e scuole, ai presidi ospedalieri, in Africa. Il 5 novembre partirà per la Nigeria e in gennaio per il Benin

“Un tempo ero laico, poi a 37 anni, 20 anni fa, c’è stata la mia conversione, a seguito del viaggio a Medugorje, – ci racconta. Il senso di solidarietà l’ho però sempre avuto nel DNA, tanto che ogni volta che ho girato il mondo, ho sempre elargito del denaro, ai bisognosi che mi è capitato di incontrare”.  

                                                                                                                                            

Quando hai capito che la tua missione era dedicarti in maniera più completa agli altri?                                                                              

 La svolta a seguito del viaggio a Medugorje. Fino ad allora ero stato una sorta di superficiale credente praticante, che girava il mondo, compresa l’Africa, anche in moto, e non dava grande importanza ai sacramenti e alla preghiera. In quel luogo, come se avessi improvvisamente intuito le mie miserie e fragilità, ho pianto molto e ho capito che dovevo cambiare la mia vita e relazionarmi in maniera diversa con Dio. È cominciata così la mia conversione, incrementando anche la frequentazione della Chiesa, finché a Montevergine (AV) non ho incontrato padre Jean Baptist, sacerdote originario del Benin (Diocesi Kandi-Benin), specializzatosi a Roma. Siamo diventati amici e, dopo che mi ha mostrato le carenze d’acqua nel suo villaggio, gli ho donato un pozzo. Quando è tornato in Africa, mi ha fatto promettere che sarei andato a trovarlo. Nel 2012 l’ho raggiunto e ho cominciato a guardare l’Africa con occhi nuovi, mi sono reso conto della vita di sofferenza della popolazione: bambini e adulti che bevevano dalle pozzanghere esponendosi a malattie, quando non la morte, bambini costretti a percorrere chilometri con le taniche in testa per approvvigionarsi dell’acqua. Un pozzo è una fonte di acqua viva utile a diverse comunità, talvolta serve fino a diecimila persone o più (dipende dalla grandezza dei villaggi) e nel tempo, cambia radicalmente la loro vita: cominciano ad allevare animali, a praticare l’agricoltura. L’acqua è di interesse primario: il 60-70 per cento dei nostri fondi li impieghiamo nella costruzione dei pozzi, a cui facciamo seguire attività ambulatoriali, considerando che, per accedere all’assistenza sanitaria, bisognerebbe percorrere centinaia di chilometri e talvolta non c’è il tempo, né la possibilità, di farlo. Molte malattie derivano dalla mancanza di igiene, dal fatto che non ci si può lavare: da una banale diarrea si passa alla febbre, inizia la sofferenza, che diventa acuta, poi grave e infine, può portare alla morte. Un piccolo presidio sanitario, con almeno uno-due infermieri e un medico, serve a trasmettere i fondamenti dell’igiene necessari a prevenire diverse malattie, anche se, per quelle più gravi, bisogna recarsi presso gli ospedali. Agli ambulatori cerchiamo di affiancare la promozione dell’istruzione di base che consenta ai più poveri, che non possono permettersi la scuola, almeno di difendere i diritti propri e della famiglia: l’istruzione emancipa e salva il mondo.                                                                                                                                                                             Come individuate dove costruire un pozzo?    

                                                                                                                                                   

Primo step individuare il punto, poi una sorta di rabdomante, col talento sensibile nelle mani, scopre dove potrebbe esserci più acqua, quindi arriva la trivella, che in genere scava per 4-5 ore, con tutta la popolazione intorno, che festeggia il grande evento, che cambierà la loro la vita. Il primo getto d’acqua, è un vero spettacolo: vediamo la gioia dei bambini e della gente. Documentiamo tutto in diretta e lo postiamo sui social, poi, a fine missione, montiamo un filmato che mostreremo ad amici, conoscenti e benefattori, nonché a chi volesse diventarlo. Vogliamo dimostrare che facciamo opere concrete e cerchiamo di renderci utili, per alleviare almeno in parte, la sofferenza di quelle popolazioni. Realizzare un pozzo costa circa 7-8 mila euro, ma dipende dal luogo, dalla quantità e dalla profondità del terreno. Un ambulatorio sanitario, così come una scuola, costa intorno ai 20-30 mila euro, a seconda delle dimensioni.                                                                                             

Finora abbiamo realizzato 24 pozzi in Benin, uno in Malawi e 5 in Nigeria, che servono una popolazione complessiva di circa 350 mila abitanti.  

                                                                                                                                                                

La strada la preparano i religiosi, che, oltre alle lingue locali, compresi i vari dialetti, parlano inglese, francese ed italiano. Con le loro diocesi, di dimensioni notevoli, sono radicati sul territorio, interloquiscono coi capi villaggio, i quali, al di là dei diversi credo religiosi, convivono senza combattersi. Ogni iniziativa la condividiamo con i capi delle comunità: acqua, sanità, scuola, sono per tutti, cristiani, musulmani, animalisti. Questo ci consente anche di approcciarci a quei territori senza temere per la nostra incolumità.

                                                                                                                                                                                                                                                                      

Con quali modalità raccogliete le risorse necessarie?     

                                                                                                                                       

  I fondi vengono raccolti sia con la promozione di giornate di beneficenza, sia nelle chiese, attraverso l’associazione Regina della Pace e Carità (con sede in Flumeri, AV), finalizzata a promuovere e gestire interventi di cooperazione allo sviluppo e progresso umano, economico e sociale, attraverso la costruzione di pozzi, scuole, ambulatori, orfanotrofi e chiese, nei Paesi in via di sviluppo. Nata allo specifico scopo della missione in Africa, la onlus è composta da 12 persone, 3 delle quali, sacerdoti africani. I sacerdoti, vivendo in Africa, conoscono il territorio e poiché ogni anno vengono in Italia, fermandosi per circa 40 giorni presso le parrocchie, ci aiutano a progettare le sfide che realizzeremo insieme. Sono loro i veri esecutori delle opere: i pozzi si scavano rapidamente in nostra presenza, ma per le altre opere che invece richiedono mesi, noi ogni anno andiamo a verificare ciò che è stato realizzato e lo inauguriamo insieme. Quest’anno abbiamo realizzato 3 pozzi in Benin e altri 3 ne realizzeremo entro fine anno in Nigeria: partiremo il 5 novembre, per tornare il 19. Per l’inizio del 2025 realizzeremo una chiesa e ancora 4 pozzi in Benin, nonché giornate sanitarie e visite agli orfanotrofi locali. Giacché abbiamo costruito tre ambulatori in Benin, tra cui un ospedale della maternità, promuoveremo la formazione sanitaria, invitando le popolazioni limitrofe, alle quali si insegnerà la prevenzione di base e doneremo dei medicinali, che, su indicazione dei medici locali, acquistiamo direttamente in loco o nelle città più grandi, che distano anche fino a 250 km. Spesso i bambini hanno la pancia gonfia dovuta ai vermi, così acquistiamo il farmaco per la sverminazione, che costa un euro e mezzo e salva loro la vita o la tachipirina, utile in caso di febbre alta. Molti bambini vengono abbandonati nella savana, se la famiglia a causa dell’estrema povertà non può mantenerli, oppure se malati o albini (pensano siano indemoniati), così suore, preti e laici, li raccolgono e li portano negli istituti religiosi dotati di orfanotrofi (30-40 posti), che però soffrono difficoltà economiche e alimentari. Quando li visitiamo, doniamo una metà delle offerte in beni materiali, riso, olio e latte in polvere, e il resto, tra i mille e i tremila euro (a seconda di ciò di ciò che siamo riusciti a mettere da parte), lo diamo alla struttura come sostegno economico. Cerchiamo di metterli in condizioni di andare avanti per qualche mese, di dare ai loro ospiti una speranza per il futuro. Nel 2026 in Malawi vorremmo realizzare un orfanotrofio per bambini abbandonati e disabili e 2-3 pozzi, per cui stiamo raccogliendo fondi e invitiamo chiunque potesse e volesse, a contribuire.                                                                                                                                                              

 Che altro fare per aiutare concretamente gli Africani?                            

                                                                                                        

  I governi locali dovrebbero preoccuparsi, per cominciare, di dare l’acqua, consentire l’istruzione e la sanità, che fornirebbe a quelle popolazioni i mezzi per progredire ed essere autonome a casa loro. In tal modo, non avrebbero bisogno di rischiare la vita sui barconi, per illusioni irrealizzabili. Purtroppo i loro governanti sono spesso dittatori che non hanno alcun interesse a metterli in condizioni di autosufficienza, ma preferiscono tenerli nell’ignoranza, per poterli gestire.                                                                                                                  

Dal canto nostro, immersi nel benessere, noi consumiamo cose inutili, sprechiamo e buttiamo. Vorrei esortare a pensare a chi ora sta soffrendo, destinando ciò che per noi è superfluo a chi invece ha necessità basilari. Per dirla con madre Teresa di Calcutta: la condivisione sconfigge la povertà.                                                      

 Siete in procinto di partire per la prossima missione…

                                                                                                                              

 Il 5 novembre partiremo per la Nigeria per due settimane. Sarò accompagnato da due nuovi benefattori, Giovanni Parrella di Motesarchio (BN), e Angela Ciasullo di Flumeri, che documenterà i lavori anche filmando e, per la missione, è riuscita a superare la sua antica paura per gli aghi, poiché ha dovuto vaccinarsi, e persino quella di volare. Ognuno di noi ha sostenuto autonomamente il costo del biglietto (1.000 €) e dei visti (300 €).                                                                                                                                                                              Dal 16 gennaio al 5 febbraio tornerò in Benin, ancora con Angela Ciasullo e i parroci: Don Alessandro Pascale, di Prato Principato Ultra, Don Alberico Grella, di Sturno, Don Rino Morra, di Bisaccia e chiunque volesse aggiungersi”. 

                                                                                                                                                                                                                                  

I prossimi eventi per raccogliere fondi e visionare quanto realizzato in Benin: sabato 30 novembre 2024 alle 20, cena di beneficenza (20 €) presso i Saloni dell’Oratorio ANSPI San Prisco (Via Grotte) a Passo Eclano (AV); domenica 8 dicembre 2024 a Zungoli (AV), ore 13 pranzo di beneficenza (25 €), presso il Convento San Francesco. Ulteriori informazioni (e prenotazioni) su: https://www.reginadellapaceecarita.org

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Ordinanza  di chiusura  Via D’Afflitto

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Si informa la cittadinanza che con Ordinanza della Polizia Municipale è stata disposta  la chiusura temporanea al traffico, con divieto di circolazione veicolare e pedonale lungo Via Vinciguerra (Tribunali)  / Via D’Afflitto / Via Werthmuller (lato Auditorium Comunale) dalle ore 6,00 del  4 novembre 2024 alle ore 24,00 del 15 dicembre 2024, al fine di procedere con i lavori di riqualificazione e rigenerazione del sistema delle Piazze nel centro urbano.

Sarà consentito il transito pedonale esclusivamente indirizzato alle abitazioni dei residenti nell’area direttamente o indirettamente interclusa, nonché all’utenza delle attività produttive ed uffici pubblici ivi ubicati. Inoltre, è concessa deroga al divieto di transito veicolare dei soli mezzi di cantiere e dei veicoli per il carico e scarico merci delle attività produttive ivi ubicate, limitatamente ai tratti progressivamente non interessati dai lavori.

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