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Per un manifesto della salute in Irpinia

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La grave emergenza provocata dalla pandemia da Covid-19 ha posto in drammatica evidenza i limiti e le contraddizioni del sistema sanitario irpino.

Certamente ha pesato la straordinarietà dell’evento, ma con eguale sicurezza si può dire che in questa occasione la provincia di Avellino si è trovata esposta a un’ondata critica senza precedenti nella fragilità di un comparto segnato da una programmazione di miope rigore finanziario attuata almeno dal 2009 attraverso tagli lineari drastici e ingiustificati. Questo ha penalizzato le strutture sanitarie in termini di risorse umane e di mancato adeguamento tecnologico e strumentale, collocandosi in uno scenario nazionale dove il mantra di ogni governo è parso essere stato quello di tagliare i fondi alla sanità riducendola nei bilanci statali esclusivamente a un costo: così, l’intervento pubblico per la sanità è stato compresso nei canoni della spesa storica, a danno soprattutto del Mezzogiorno. In circostanze del genere, poi, ha mostrato la sua totale inefficienza il criterio attraverso il quale il sistema sanitario, soprattutto in Italia Meridionale, si è dotato dei propri dirigenti apicali, selezionati molto spesso in base a principii di convenienza e appartenenza politica e non di competenza acclarata e di qualità professionale, troppo spesso sanciti in insopportabili riti spartitori.

L’Irpinia ha pagato un prezzo estremamente alto, in rapporto alla sua popolazione, tra le provincie meridionali con più di 500 contagiati e oltre 50 i morti. Se la situazione non è degenerata si deve all’impegno profuso dagli operatori, a qualsiasi livello: dagli ospedali ai sistemi di soccorso del 118, che soprattutto nelle fasi iniziali della diffusione della pandemia hanno lavorato in evidenti carenze di organico e di dispositivi di protezione. Nonostante ciò, troppe famiglie colpite dal Covid 19, soprattutto nelle zone rurali, si sono sentite abbandonate e senza alcuna indicazione circa le modalità necessarie ad affrontare un momento tanto complesso e difficile.

Da questa esperienza esce rafforzata la convinzione che in Irpinia debba essere inaugurata una stagione nuova che abbia al centro – e come priorità assoluta – la cura della domanda di salute della persona e della comunità. I principali attori della gestione della sanità hanno il dovere di utilizzare questa, per molti versi incredibile occasione di cambiamento, indotta da tutte le criticità palesate dal Covid 19, per uscire dall’immobilismo dei precedenti meccanismi e dalle paludi dei condizionamenti politici e aprire una stagione nuova orientata alla ricostruzione di una salute pubblica che ponga l’individuo e la peculiarità del territorio come punti di partenza della futura riorganizzazione.

In una provincia che ha una popolazione caratterizzata da un alto tasso di anzianità in Campania (l’età media di 44,7 anni precede soltanto quella del Sannio che registra una media di 44,9), con una conformazione geografica particolare, allora deve diventare prioritaria l’attenzione a declinare l’offerta di servizio in base alle domande che il territorio pone: articolandola in un prima (la prevenzione), in un durante (la cura) e in un dopo (l’assistenza domiciliare e residenziale). Esclusivamente nell’equilibrio puntuale tra queste tre fasi si può trovare la cifra della buona politica per garantire il diritto alla salute.

Il piano sanitario con cui la Regione Campania è uscita dal regime di commissariamento ha l’obbligo di aggiornarsi e rifondarsi, per l’Irpinia, su queste considerazioni di fondo.

Si tratta di mutare radicalmente il paradigma. Se si crede nella sanità pubblica, se si è convinti che la gestione dei suoi meccanismi riguardi il delicato terreno dove si determina il futuro della vita delle persone, se come requisito minimo di civiltà si intende assicurare la nascita, la vita e la morte in condizioni favorevoli, allora da qui, dall’Irpinia e da questa fase occorre rilanciare una questione meridionale della sanità.

Il punto da cui partire riguarda un tema istituzionale. C’è bisogno di un nuovo rapporto tra governo centrale e autonomie degli enti locali, soprattutto delle Regioni. C’è urgenza di uno sguardo d’insieme che colga le diseguaglianze, operi per colmarle e realizzi un corpo omogeneo unitario e nazionale. Un malinteso federalismo ha prodotto 20 sistemi sanitari diversi e, all’interno di ogni regione, 110 sottosistemi nelle provincie, senza con questo costruire un valido rapporto con il territorio. E’ qui che ci si misura con il benessere delle persone.
Il rapporto tra pubblico e privato va inevitabilmente riequilibrato: dovrà essere necessariamente l’ente pubblico, in maniera netta, inequivocabile e trasparente a stabilire indirizzo e scelte complessive, alle quali evidentemente le strutture private devono adeguarsi in funzione integrativa e mai sostitutiva. Il circuito virtuoso da costruire non può che vedere l’Asl nella dimensione di chi legge il territorio ed esercita il ruolo di committente, l’Azienda ospedaliera nel parte di erogatrice dei servizi e ancora l’Asl nella funzione del controllo.
Va ripensata la relazione tra ospedale e territorio. L’esperienza del Covid-19 consegna la verità che le epidemie si combattono e si sconfiggono sul territorio, nei luoghi della prevenzione, della presa in carico e dell’assistenza domiciliare. Qui si esercita il governo della salute e qui, per esempio, appare da rivedere il tessuto dei Dipartimenti di prevenzione e dei Distretti socio-sanitari, momento d’incontro con gli amministratori locali che devono attivare ruolo e funzioni sottraendoli alla burocratizzazione in cui si sono ridotti. Qui occorre esaltare la figura dei rappresentanti delle amministrazioni locali che dovranno attivare le Consulte sanitarie come organismi in grado di esercitare un autentico governo della salute.
E’ giunto evidentemente il tempo di modificare l’attuale organizzazione della gestione ospedaliera e di quella territoriale. Già il termine “Azienda” richiama un modello organizzativo che è fallito e sopravvive soltanto per finzione giuridica. Dunque, andrebbe eliminato nel lessico e se viene qui ancora utilizzato è per riferirsi all’istituzione che oggi continua a definirsi in tal modo. Per questo va posta la necessità della creazione di un’Azienda sanitaria locale, deputata alla gestione anche dell’assistenza territoriale (medici di famiglia, assistenza farmaceutica, epidemiologia e prevenzione, gestione veterinaria, collegamento con i Piani di Zona) e di un’Azienda irpina degli ospedali riuniti che si occupi in maniera esclusiva – in funzione di hub – dell’organizzazione della rete delle strutture sul territorio – in funzione di spoke.
Occorre assolutamente procedere a una vera rivoluzione del ruolo dei medici di base. Essi costituiscono la prima barriera del sistema, la prima frontiera per qualunque persona che abbia bisogno di un intervento nel campo della salute; sono i sensori che per primi sono chiamati a segnalare le necessità dei cittadini. Oggi, al contrario, si trovano collocati in una sorta di terra di mezzo che è quella del regime della convenzione, inchiodati al rapporto ottimale di uno ogni 1500 utenti e gravati dal peso della cosiddetta spesa storica che avvilisce la loro attività: troppo spesso, infatti, essa è costretta a una risposta meramente amministrativa, rimandando alla struttura ospedaliera quella sanitaria, con le inevitabili e gravi conseguenze sui Pronto soccorso, perennemente intasati. Innalzando il livello del loro impegno e riconsiderando anche il ruolo della Continuità assistenziale – l’ex Guardia medica che attualmente svolge più un ruolo di prima occupazione per i giovani medici che di vero e utile servizio per la popolazione – si potrà invece valutare il modello delle Unità speciali di continuità assistenziale. La necessità impellente è di perseguire modelli virtuosi, già operanti da anni in regioni che si possano delineare nelle forme di poliambulatori, o Case della salute, in funzione 12 ore al giorno, con una gamma completa di figure professionali e di dotazione tecnologica di base capaci di soddisfare il primo momento di bisogno. In questi luoghi di cura i medici di base potranno riqualificare il loro lavoro e diventare la pietra di base nella ricostruzione del sistema sanitario.
Medicina territoriale significa riportare all’interno della gestione pubblica servizi che ora sono completamente appaltati all’esterno. Medicina territoriale significa anche irrobustire la rete ambulatoriale , la cui attività oggi è affidata, soprattutto per un livello di complessità appena più alto, agli Ospedali, con inevitabile loro congestione e il verificarsi del fenomeno doloroso delle liste di attesa interminabili, un fenomeno che penalizza soprattutto le classi sociali meno abbienti. Medicina territoriale significa recuperare il ritardo che l’Irpinia ha accumulato per l’assistenza psichiatrica ( dove dal 2002 in provincia si erano registrati ottimi risultati) , e quella consultoriale.
Bisogna attuare, nei nuovi Atti aziendali, ciò che dispone il Piano regionale della rete di assistenza sanitaria territoriale 2019-2021: una organizzazione del Dipartimento Salute mentale distribuita in 4 Unità operative territoriali e il servizio territoriale materno-infantile distribuito su 16 consultori provinciali. L’attività dei consultori è a sostegno delle donne, del gender free e della popolazione dei migranti.
L’accento da porre è quindi sul territorio e il ridisegno del servizio sanitario dipende assolutamente dalla capacità con cui esso si attrezza e si riorganizza. Le strutture ospedaliere di Ariano Irpino , Sant’Angelo dei Lombardi, Solofra e Bisaccia dovranno collocarsi nell’area irpina non come improponibili modelli a immagine e somiglianza del grande ospedale, ma come impianti che rispondono ad esigenze specifiche – per es. a Sant’Angelo dei Lombardi privilegiando il Polo riabilitativo, a Bisaccia la cura alle persone più anziane ( di Ariano Irpino e Solofra si dirà in seguito) – e siano in grado di soddisfarle in un modello organizzativo con l’Azienda “Moscati” del tipo hub e spoke.
Il numero complessivo di posti letto va incrementato per adeguarlo necessariamente allo standard previsto dal decreto ministeriale 70 del 2015 di 3 per 1000 abitanti. Il che richiama anche la necessità di adeguare la dotazione organica di tutte le figure professionali necessarie.
I mezzi tecnologici utili ci sono e alcuni già operanti (Telecardiologia, Teleradiologia). Lo sviluppo delle reti tempo- dipendenti deve rappresentare un imperativo categorico, alla luce dell’enorme dispersione della popolazione irpina su un territorio sterminato che conta 2800 chilometri quadrati: la rete che attualmente funziona, per l’infarto miocardico, tra 118 , l’Azienda “Moscati” e l’ospedale di Ariano, ne è una prima dimostrazione, ma va affiancata rapidamente da quelle dell’ictus cerebrale (incredibilmente bloccata da un inghippo burocratico che ha interrotto la pratica virtuosa della fibrinolisi precoce presso la Neurologia del “Frangipane” di Ariano Irpino) e del politrauma.
Così come va reinterpretato il servizio del 118: le postazioni che attualmente prevedono la presenza del medico, hanno un personale infermieristico e soccorritore, gestito totalmente e in maniera autonoma dalle associazioni di volontariato con modalità da ridefinire, anche sotto il profilo della trasparenza, considerando la possibilità di ricondurle in un rapporto di dipendenza. Così come le postazioni non medicalizzate (i cosiddetti punti Stie) appaiono mal distribuite sul territorio, costose e mal organizzate, anch’esse totalmente affidate ad una gestione scarsamente controllata delle associazioni di volontariato.
L’Ospedale è certamente al centro di questo schema, ma non può assimilarlo del tutto, perché in tal modo ridurrebbe e avvilirebbe la sua funzione. In Irpinia vuol dire che all’Azienda ospedaliera “Moscati” va riconosciuto il suo ruolo che è centrale, ma all’interno di una rete di presenze strutturate con cui stabilire relazioni e contatti. Nella fase dell’emergenza tanto è mancato e si è registrata l’assenza di un Dipartimento integrato in grado di svolgere l’attività imposta dalla crisi. L’organizzazione ospedaliera va adattata a ciò che il progresso tecnologico sta realizzando sul piano delle conquiste e di conseguenza su quello dell’offerta di prestazioni per le singole patologie. In questo senso l’Azienda ospedaliera “Moscati” va intesa come il luogo dell’alta e altissima specialità, in cui l’utente possa ricevere quelle prestazioni particolari, per patologie complesse, legate ad utilizzo di specifiche tecnologie, che necessitano a loro volta di notevole esperienza da parte degli operatori. La struttura avellinese andrà assolutamente sgravata dal trattamento delle patologie di livello intermedio da affidarsi alla struttura di un Dea di I livello già peraltro individuata nella nostra provincia nel “S. Ottone Frangipane” di Ariano Irpino ( a cui è già stato assegnato il ruolo di “spoke” nelle reti infarto miocardico e ictus e che andrà evidentemente e ulteriormente attrezzato , sia sul piano delle risorse umane che di quelle strumentali).
Serve uno scatto in avanti sul terreno della ricerca e dell’innovazione. L’Irpinia ormai da tempo produce dati di estrema preoccupazione sul versante dell’inquinamento ambientale – dell’aria e delle acque – e nei luoghi di lavoro. D’altra parte esistono centri che lavorano in solitudine – il Cnr, il Crom, il Biogem – e aziende che possono vantare importanti risultati nel settore farmaceutico. Insomma, c’è la malattia e potrebbe esserci la diagnosi e la cura. Manca, però, un punto di sintesi che potrebbe realizzarsi in un distretto che trovi collocazione a Solofra e che nell’ospedale “Landolfi” abbia l’anello di contatto con il vicino polo universitario di Fisciano. Così in Irpinia si creerebbe un luogo di attrazione per intelligenze, che invece sarebbero orientate altrove; la provincia potrebbe in tal modo candidarsi a riferimento meridionale.
Strettamente collegato al tema della medicina territoriale è quello relativo all’assistenza socio-sanitaria. Non soltanto in ragione di quanto accaduto nelle tremende settimane della pandemia occorre rivisitare la rete delle Residenze sanitarie assistenziali, dove il controllo e la vigilanza pubbliche devono essere costanti e precise, al pari dei criteri di accreditamento. L’assistenza socio-sanitaria si attua, poi, attraverso la presa in carico degli utenti da parte dei Piani di Zona
Pesano sul bilancio dell’assistenza nella provincia le condizioni di diffuso disagio sociale ed economico che determinano una cronica insufficienza di risultati, il mancato turn-over del personale e uno storico sottodimensionamento dei finanziamenti cui solo negli ultimi anni si sta mettendo parzialmente riparo. Nonostante per legge regionale i confini territoriali coincidano con quelli dei distretti sanitari non sempre si realizza un sufficiente livello di integrazione dei servizi. L’Asl territoriale dovrà necessariamente avere un ruolo anche nelle attività più strettamente assistenziali, collegandosi ai Comuni per l’attuazione dei Piani di Zona.

 

Al momento firmano il documento:

Gennaro Bellizzi

Silvano Bello

Pucci Bruno

Agostino De Rosa

Ettore De Socio

Rino De Stefano

Franco Festa

Enrico Franza

Antonio Gengaro

Giancarlo Giordano

Angelo Giusto

Sabatino Manzi

Ugo Morelli

Maria Grazia Papa

Anna Maria Pascale

Generoso Picone

Euro Pierni

Enzo Rocco

Nino Sanfilippo

Ugo Santinelli

Amalio Santoro

Costantino Troise

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Pallavolo Serie D – Esordio fuori casa per il GSA Pallavolo Ariano

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Dopo aver conquistato nella scorsa stagione la promozione in serie D, la Coppa e la SuperCoppa IrpiniaSannio,  il GSA PALLAVOLO ARIANO sabato 2 novembre scende in campo a Cava dei Tirreni per la prima gara del campionato di serie D maschile.

La partita inizierà alle ore 19.30 per dare avvio ad una nuova fase agonistica che il GSA intende giocare  per l’alta classifica.

Confermato lo staff tecnico con Giulio Filomena e Nico Medici a guidare il gruppo nel quale saranno ancora  G. Santosuosso, L. Guardabascio e R. Caso  punti di riferimento per giovani promettenti come M. Molinario, M. Ninfadoro , C. Capozzi e P.Borriello. La qualità non manca nel resto della squadra con  G. Ricciardi, A. La Luna, L. Schiavo, H. Chiaradonna, A. Iandoli, T. Barrasso , M. Toriello  a disposizione dei tecnici per dimostrare di  valere la categoria.

Per questa importante avventura regionale, la società arianese è pronta  anche a lanciare i giovanissimi dell’Under 17 che già hanno messo in mostra il loro positivo spessore con una vittoria per 3-0 nel debutto casalingo con i pari età dell’Academy nel torneo territoriale di categoria.

Per l’esordio fuori casa gli arianesi dovranno aspettarsi una gara difficile e confrontarsi con un avversario molto solido; il fattore campo può aiutare i cavesi, ma il GSA deve subito metabolizzare le difficoltà della serie regionale e scendere sul parquet con la consapevolezza di saper imporre il proprio gioco  per conquistare la vittoria.

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Giornata delle Forze Armate – Il 4 Novembre ad Ariano la cerimonia per il Giorno dell’Unità Nazionale

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L’Amministrazione Comunale di Ariano Irpino, in una sobria e solenne cerimonia, vuole  commemorare i Caduti di tutte le Guerre, rendere omaggio alle Forze Armate, celebrando la Festa dell’Unità Nazionale, in ricordo della fine della prima Guerra Mondiale.

Appuntamento lunedì 4 novembre 2024 alle ore 10,00 al Piano della Croce presso il Monumento ai Caduti dove, alla presenza delle Autorità Civili, Militari e  Religiose, verrà   deposta la   Corona di alloro, sulle note dell’Inno Nazionale.

Una  Corona di Alloro verrà deposta anche davanti al busto di Giulio Lusi in Villa Comunale e nell’atrio di Palazzo di Città.

Il messaggio istituzionale  è rivolto alle nostre giovani generazioni, per non dimenticare  i nostri Caduti in Guerra, morti per gli ideali risorgimentali di indipendenza, di libertà, di democrazia che hanno determinato l’Unità d’Italia ed esprimere riconoscenza per coloro che ancora oggi rischiano la vita al Servizio della Comunità.

La cittadinanza  è invitata a partecipare.

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Roberto Zaffiro: vi racconto la mia Africa e vi invito a diventare benefattori

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Imprenditore nel settore edile (azienda di dieci dipendenti), insieme ad altri due fratelli, sposato e con due figli, Roberto Zaffiro, con il pieno sostegno della famiglia, si dedica anima e corpo alla missione che lo appassiona e gratifica di più: dalla costruzione di pozzi e scuole, ai presidi ospedalieri, in Africa. Il 5 novembre partirà per la Nigeria e in gennaio per il Benin

“Un tempo ero laico, poi a 37 anni, 20 anni fa, c’è stata la mia conversione, a seguito del viaggio a Medugorje, – ci racconta. Il senso di solidarietà l’ho però sempre avuto nel DNA, tanto che ogni volta che ho girato il mondo, ho sempre elargito del denaro, ai bisognosi che mi è capitato di incontrare”.  

                                                                                                                                            

Quando hai capito che la tua missione era dedicarti in maniera più completa agli altri?                                                                              

 La svolta a seguito del viaggio a Medugorje. Fino ad allora ero stato una sorta di superficiale credente praticante, che girava il mondo, compresa l’Africa, anche in moto, e non dava grande importanza ai sacramenti e alla preghiera. In quel luogo, come se avessi improvvisamente intuito le mie miserie e fragilità, ho pianto molto e ho capito che dovevo cambiare la mia vita e relazionarmi in maniera diversa con Dio. È cominciata così la mia conversione, incrementando anche la frequentazione della Chiesa, finché a Montevergine (AV) non ho incontrato padre Jean Baptist, sacerdote originario del Benin (Diocesi Kandi-Benin), specializzatosi a Roma. Siamo diventati amici e, dopo che mi ha mostrato le carenze d’acqua nel suo villaggio, gli ho donato un pozzo. Quando è tornato in Africa, mi ha fatto promettere che sarei andato a trovarlo. Nel 2012 l’ho raggiunto e ho cominciato a guardare l’Africa con occhi nuovi, mi sono reso conto della vita di sofferenza della popolazione: bambini e adulti che bevevano dalle pozzanghere esponendosi a malattie, quando non la morte, bambini costretti a percorrere chilometri con le taniche in testa per approvvigionarsi dell’acqua. Un pozzo è una fonte di acqua viva utile a diverse comunità, talvolta serve fino a diecimila persone o più (dipende dalla grandezza dei villaggi) e nel tempo, cambia radicalmente la loro vita: cominciano ad allevare animali, a praticare l’agricoltura. L’acqua è di interesse primario: il 60-70 per cento dei nostri fondi li impieghiamo nella costruzione dei pozzi, a cui facciamo seguire attività ambulatoriali, considerando che, per accedere all’assistenza sanitaria, bisognerebbe percorrere centinaia di chilometri e talvolta non c’è il tempo, né la possibilità, di farlo. Molte malattie derivano dalla mancanza di igiene, dal fatto che non ci si può lavare: da una banale diarrea si passa alla febbre, inizia la sofferenza, che diventa acuta, poi grave e infine, può portare alla morte. Un piccolo presidio sanitario, con almeno uno-due infermieri e un medico, serve a trasmettere i fondamenti dell’igiene necessari a prevenire diverse malattie, anche se, per quelle più gravi, bisogna recarsi presso gli ospedali. Agli ambulatori cerchiamo di affiancare la promozione dell’istruzione di base che consenta ai più poveri, che non possono permettersi la scuola, almeno di difendere i diritti propri e della famiglia: l’istruzione emancipa e salva il mondo.                                                                                                                                                                             Come individuate dove costruire un pozzo?    

                                                                                                                                                   

Primo step individuare il punto, poi una sorta di rabdomante, col talento sensibile nelle mani, scopre dove potrebbe esserci più acqua, quindi arriva la trivella, che in genere scava per 4-5 ore, con tutta la popolazione intorno, che festeggia il grande evento, che cambierà la loro la vita. Il primo getto d’acqua, è un vero spettacolo: vediamo la gioia dei bambini e della gente. Documentiamo tutto in diretta e lo postiamo sui social, poi, a fine missione, montiamo un filmato che mostreremo ad amici, conoscenti e benefattori, nonché a chi volesse diventarlo. Vogliamo dimostrare che facciamo opere concrete e cerchiamo di renderci utili, per alleviare almeno in parte, la sofferenza di quelle popolazioni. Realizzare un pozzo costa circa 7-8 mila euro, ma dipende dal luogo, dalla quantità e dalla profondità del terreno. Un ambulatorio sanitario, così come una scuola, costa intorno ai 20-30 mila euro, a seconda delle dimensioni.                                                                                             

Finora abbiamo realizzato 24 pozzi in Benin, uno in Malawi e 5 in Nigeria, che servono una popolazione complessiva di circa 350 mila abitanti.  

                                                                                                                                                                

La strada la preparano i religiosi, che, oltre alle lingue locali, compresi i vari dialetti, parlano inglese, francese ed italiano. Con le loro diocesi, di dimensioni notevoli, sono radicati sul territorio, interloquiscono coi capi villaggio, i quali, al di là dei diversi credo religiosi, convivono senza combattersi. Ogni iniziativa la condividiamo con i capi delle comunità: acqua, sanità, scuola, sono per tutti, cristiani, musulmani, animalisti. Questo ci consente anche di approcciarci a quei territori senza temere per la nostra incolumità.

                                                                                                                                                                                                                                                                      

Con quali modalità raccogliete le risorse necessarie?     

                                                                                                                                       

  I fondi vengono raccolti sia con la promozione di giornate di beneficenza, sia nelle chiese, attraverso l’associazione Regina della Pace e Carità (con sede in Flumeri, AV), finalizzata a promuovere e gestire interventi di cooperazione allo sviluppo e progresso umano, economico e sociale, attraverso la costruzione di pozzi, scuole, ambulatori, orfanotrofi e chiese, nei Paesi in via di sviluppo. Nata allo specifico scopo della missione in Africa, la onlus è composta da 12 persone, 3 delle quali, sacerdoti africani. I sacerdoti, vivendo in Africa, conoscono il territorio e poiché ogni anno vengono in Italia, fermandosi per circa 40 giorni presso le parrocchie, ci aiutano a progettare le sfide che realizzeremo insieme. Sono loro i veri esecutori delle opere: i pozzi si scavano rapidamente in nostra presenza, ma per le altre opere che invece richiedono mesi, noi ogni anno andiamo a verificare ciò che è stato realizzato e lo inauguriamo insieme. Quest’anno abbiamo realizzato 3 pozzi in Benin e altri 3 ne realizzeremo entro fine anno in Nigeria: partiremo il 5 novembre, per tornare il 19. Per l’inizio del 2025 realizzeremo una chiesa e ancora 4 pozzi in Benin, nonché giornate sanitarie e visite agli orfanotrofi locali. Giacché abbiamo costruito tre ambulatori in Benin, tra cui un ospedale della maternità, promuoveremo la formazione sanitaria, invitando le popolazioni limitrofe, alle quali si insegnerà la prevenzione di base e doneremo dei medicinali, che, su indicazione dei medici locali, acquistiamo direttamente in loco o nelle città più grandi, che distano anche fino a 250 km. Spesso i bambini hanno la pancia gonfia dovuta ai vermi, così acquistiamo il farmaco per la sverminazione, che costa un euro e mezzo e salva loro la vita o la tachipirina, utile in caso di febbre alta. Molti bambini vengono abbandonati nella savana, se la famiglia a causa dell’estrema povertà non può mantenerli, oppure se malati o albini (pensano siano indemoniati), così suore, preti e laici, li raccolgono e li portano negli istituti religiosi dotati di orfanotrofi (30-40 posti), che però soffrono difficoltà economiche e alimentari. Quando li visitiamo, doniamo una metà delle offerte in beni materiali, riso, olio e latte in polvere, e il resto, tra i mille e i tremila euro (a seconda di ciò di ciò che siamo riusciti a mettere da parte), lo diamo alla struttura come sostegno economico. Cerchiamo di metterli in condizioni di andare avanti per qualche mese, di dare ai loro ospiti una speranza per il futuro. Nel 2026 in Malawi vorremmo realizzare un orfanotrofio per bambini abbandonati e disabili e 2-3 pozzi, per cui stiamo raccogliendo fondi e invitiamo chiunque potesse e volesse, a contribuire.                                                                                                                                                              

 Che altro fare per aiutare concretamente gli Africani?                            

                                                                                                        

  I governi locali dovrebbero preoccuparsi, per cominciare, di dare l’acqua, consentire l’istruzione e la sanità, che fornirebbe a quelle popolazioni i mezzi per progredire ed essere autonome a casa loro. In tal modo, non avrebbero bisogno di rischiare la vita sui barconi, per illusioni irrealizzabili. Purtroppo i loro governanti sono spesso dittatori che non hanno alcun interesse a metterli in condizioni di autosufficienza, ma preferiscono tenerli nell’ignoranza, per poterli gestire.                                                                                                                  

Dal canto nostro, immersi nel benessere, noi consumiamo cose inutili, sprechiamo e buttiamo. Vorrei esortare a pensare a chi ora sta soffrendo, destinando ciò che per noi è superfluo a chi invece ha necessità basilari. Per dirla con madre Teresa di Calcutta: la condivisione sconfigge la povertà.                                                      

 Siete in procinto di partire per la prossima missione…

                                                                                                                              

 Il 5 novembre partiremo per la Nigeria per due settimane. Sarò accompagnato da due nuovi benefattori, Giovanni Parrella di Motesarchio (BN), e Angela Ciasullo di Flumeri, che documenterà i lavori anche filmando e, per la missione, è riuscita a superare la sua antica paura per gli aghi, poiché ha dovuto vaccinarsi, e persino quella di volare. Ognuno di noi ha sostenuto autonomamente il costo del biglietto (1.000 €) e dei visti (300 €).                                                                                                                                                                              Dal 16 gennaio al 5 febbraio tornerò in Benin, ancora con Angela Ciasullo e i parroci: Don Alessandro Pascale, di Prato Principato Ultra, Don Alberico Grella, di Sturno, Don Rino Morra, di Bisaccia e chiunque volesse aggiungersi”. 

                                                                                                                                                                                                                                  

I prossimi eventi per raccogliere fondi e visionare quanto realizzato in Benin: sabato 30 novembre 2024 alle 20, cena di beneficenza (20 €) presso i Saloni dell’Oratorio ANSPI San Prisco (Via Grotte) a Passo Eclano (AV); domenica 8 dicembre 2024 a Zungoli (AV), ore 13 pranzo di beneficenza (25 €), presso il Convento San Francesco. Ulteriori informazioni (e prenotazioni) su: https://www.reginadellapaceecarita.org

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