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Speciale – All’origine della coscienza di classe, il libro postumo di Nicola Savino

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Come si è formata la coscienza di classe? Quando sono nate le associazioni del lavoro, i sindacati e i partiti politici? E le leggi a tutela dei lavoratori? Le risposte a queste e molte altre questioni, nel libro postumo del sociologo Nicola Savino, che analizza un quarto di secolo di lotte operaie e contadine, le avventure militari in Africa e i dibattiti nella sinistra. Presentato in anteprima nazionale ad Ariano Irpino,ne proponiamo qui qualche estratto, sintetizzato

Uno scenario di grandi cambiamenti      

Fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, il Regno d’Italia si trascinava vecchi problemi: il Vaticano che rivendicava lo Stato pontificio, i fermenti irredentistici che scuotevano l’Italia, l’isolamento internazionale, lo stallo dell’economia e la povertà diffusa. Tuttavia, all’inizio del 1900 si intravedevano le avvisaglie di una transizione dalla civiltà rurale a quella industriale. Almeno nell’area del futuro triangolo industriale: Genova-Torino-Milano. La rete stradale su gomma e su ferro che serviva la fascia settentrionale della Pianura Padana, rendeva quell’area attrattiva di investimenti pubblici e privati, collegandola alle nazioni più potenti dell’Europa occidentale, forti di una buona crescita industriale. I settori più trainanti della seconda fase della rivoluzione industriale passavano per la metallurgia la siderurgia, la meccanica, l’elettricità. Furono ampliati gli stabilimenti nei settori del trasporto su rotaie e in quello armatoriale; nel 1881 nacque la Compagnia della Navigazione Generale Italiana. Nel 1884 la società Edison avviò l’era dell’energia elettrica; nel 1888 fu fondata la Montecatini, Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica.                                                                                                                                                       

Lo sviluppo dell’industria pesante monopolistica, necessitava di ingenti capitali di cui non sempre i privati disponevano, tanto da richiedere l’intervento statale, che significava aumentare il debito pubblico, finché il mondo della finanza non assunse un ruolo da comprimario. Non senza scandali, tanto che nel 1894, per farli cessare, l’intero sistema creditizio fu riorganizzato con la creazione della Banca d’Italia, unica autorizzata a emettere la lira italiana.                                                                                                                                        

Il legame tra la borghesia industriale e quella finanziaria, influenzò le scelte di politica interna e internazionale dei governi che si succedevano in Italia. La borghesia si arricchiva nutrendosi di fondi pubblici e sfruttando il basso costo della forza-lavoro schiavizzata con 12-13 ore di prestazioni giornaliere e un salario a malapena sufficiente al fabbisogno alimentare, mentre al triangolo industriale si contrapponeva un impoverimento del Sud, dove la mono produzione agricola, prevalentemente cerealicola, era soggetta a fattori ambientali-metereologici e a un’esasperata concorrenza internazionale. Non solo: la realtà agricola del Sud si concentrava nelle mani di un’oligarchia agraria parassitaria, che aveva escluso il Meridione dalla crescita industriale, anche per la mancanza di investimenti infrastrutturali, ampliando la disparità economica, sociale e culturale con il Nord.

La Questione meridionale

Con l’unità d’Italia, il Sud divenne un nodo che il Regno dei Savoia peggiorò, prima con la liquidazione dei beni demaniali (1862), poi con l’esproprio delle terre dello Stato pontificio (1866), che favorirono l’aristocrazia agraria, aggiudicatasi quasi tutti i terreni alienati. A ciò si aggiunse la pressione fiscale statale per realizzare le infrastrutture in Italia settentrionale, che gravò sulle piccole e medie aziende agricole, tanto che dal 1875 al 1900, lo Stato requisì oltre 250 mila proprietà terriere per insolvenza al pagamento delle imposte, che vendute all’asta, furono acquistate dai latifondisti. Nel vivace dibattito sulle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno, emersero due correnti di pensiero. Sidney Sonnino alla Camera (19/06/1901), condiviso da Giolitti, aveva sostenuto l’intervento dello Stato, attraverso una legge volta a ridurre l’imposta fondiaria all’aristocrazia agraria, che come ricaduta, avrebbe consentito ai contadini dei “patti agrari” più vantaggiosi, anche in virtù di eventuali investimenti nel settore. Contro quell’ipotetico regalo ai proprietari terrieri, il pugliese Gaetano Salvemini, sulle pagine de “L’Avanti!” sosteneva che la vera riforma consisteva nell’espropriare le terre ai latifondisti e distribuirle equamente ai contadini. Per rimarcare il suo impegno, il Governo il 26 giugno 1902 avviò la costruzione dell’Acquedotto pugliese, un progetto colossale che, dal bacino del Sele, dopo un percorso di centinaia di chilometri, avrebbe fornito acqua potabile a buona parte della Campania e della Puglia. In settembre (1902) il presidente del Consiglio Zanardelli, nonostante le sue precarie condizioni di salute, intraprese un viaggio antropologico-culturale per constatare le condizioni di vita degli abitanti delle aree interne della dorsale appenninica meridionale, visitando la Basilicata. Le sue riflessioni furono utilizzate nel dibattito parlamentare, che il 23 febbraio 1904, portò all’approvazione della Legge speciale per la Basilicata. In quell’anno la Camera licenziò anche la legge sul “Risorgimento economico della città di Napoli” che, oltre alla costituzione dell’Ente Autonomo Volturno per la produzione di energia idroelettrica, prevedeva agevolazioni per le industrie che localizzassero nel napoletano i propri stabilimenti. Tra i primi beneficiari, la Società delle Ferriere italiane, che ottenne di realizzare un impianto siderurgico a ciclo integrale a Bagnoli.

Emigrazione o brigantaggio    

Eccettuando i pochi insediamenti industriali nelle aree meridionali, il panorama socio-economico evidenziava forti diseguaglianze sociali in cui, a un esercito escluso dai meccanismi di produzione, non rimaneva che ribellarsi aderendo al brigantaggio o emigrando nei Paesi a forte sviluppo industriale dell’Europa occidentale o in Nord America. Nel 1889, con la Risoluzione della Conferenza Internazionale sull’Emigrazione e il 31 gennaio 1901, sotto il Governo Saracco, fu promulgata la legge per la “Tutela giuridica degli emigrati”, volta ad agevolare le “modalità d’espatrio”, con la creazione del “Commissario Generale per l’Emigrazione”. La potente aristocrazia agraria meridionale la giudicò una “pericolosa disposizione”, preoccupata di perdere la sua forza lavoro a basso costo. In quel tormentato periodo storico, l’emigrazione fu invece una sorta di riequilibrio delle disparità demografiche e degli esuberi di forza lavoro, una “valvola di sicurezza” (Sonnino, 1885) per contenere conflittualità e turbolenze sociali. Quell’imponente fenomeno di massa fu l’escamotage per la borghesia industriale e armatoriale, per giustificare le avventure coloniali in Africa: ovvero, conquistare terre per i contadini italiani. Tra il 1873 e il 1900 gli espatri superarono i duecentomila all’anno. Emigrarono per primi i veneti, seguiti da friulani e piemontesi e al Sud i siciliani, campani, calabresi, lucani e pugliesi. Le rimesse di quel popolo, che si faceva carico anche dei familiari rimasti in patria, furono in gran parte introiettate dallo Stato per pianificare l’industrializzazione del Nord, attraverso l’offerta di Buoni del Tesoro.

 I fasci siciliani, la Camera del lavoro, il Partito dei Lavoratori Italiani            

Dall’aggregazione delle società operaie, il 18 marzo 1889 si costituì a Messina, il primo fascio del lavoro, subito bloccato dall’arresto del suo ispiratore, Nicola Petrina. Meglio andò al fascio di Catania, una libera associazione fondata il 1° maggio 1891 da Giuseppe De Felice Giuffrida.  Il 1° ottobre 1891 nasceva a Milano la Camera del Lavoro, che segnò l’avvio del sindacalismo italiano. Il 29 giugno 1892 fu costituito il fascio di Palermo. Il 14 agosto 1892 a Genova, su iniziativa di Filippo Turati e Giulio Albertelli, oltre 400 delegati del Partito Operaio Italiano, della Lega Socialista Milanese, del partito Socialista Rivoluzionario di Romagna, dei Fasci Siciliani, del Comitato per la Rivoluzione Sociale, dei positivisti e di altre leghe, nonché movimenti operai e anarchici, si riunirono per creare un partito nazionale della classe operaia, con la nascita del Partito dei Lavoratori Italiani. Il 15 agosto, con l’approvazione dello statuto, nasceva nella pur difficile sintesi tra l’ideologia mazziniana, il socialismo marxista e l’anarchismo bakuniniano, il Partito dei Lavoratori Italiani.

Fasci urbani e rurali in Sicilia

La struttura agraria ancora feudale, aveva al vertice l’aristocrazia dei grandi latifondi, seguita dai “gabellotti”, affiliati alla mafia che affittavano le terre a basso prezzo dai proprietari, per subaffittarle a un canone molto più elevato della “gabella” da loro pagata, sottoponendo gli affittuari all’opprimente controllo dei “soprastanti” e dei “campieri”. Seguivano i piccoli e medi proprietari, soprattutto contadini, che erano riusciti ad acquistare qualche ettaro dai beni ecclesiastici, quindi i coloni, alcuni sottoposti a mezzadria e, alla base, i braccianti, lavoratori stagionali, acquistati nelle piazze delle città come schiavi.

Il governo Crispi e le stragi contadine

Dopo le dimissioni di Giolitti, il 15 dicembre 1893 si insediò il governo Crispi, costretto ad affrontare le agitazioni popolari siciliane, che gendarmi e campieri iniziarono a reprimere nel sangue. A Giardinelle, il 10 dicembre, 11 contadini furono uccisi e 18 feriti; a Lercara, il giorno di Natale, 11 morti e 35 feriti; a Pietrapazza il 1° gennaio 1894, 8 morti e 15 feriti; il 3 gennaio a Morico, 18 morti e 50 feriti, il 4 gennaio a Santa Caterina, 13 morti. L’epilogo dei drammatici moti siciliani, fu il Regio decreto che proclamava lo stato d’assedio dell’isola (4 gennaio 1894). Il generale Roberto Morra di Lavriano, nominato Commissario straordinario da Crispi con pieni poteri militari e civili, istituì tre tribunali militari, vietò le riunioni pubbliche, confiscò le armi, censurò la libertà di stampa, operò arresti di massa e fece vigilare l’ingresso all’isola. Molti sospettati ribelli furono obbligati al domicilio coatto e altri confinati. I fasci furono sciolti e i loro dirigenti arrestati e condannati con processi sommari. Un’epurazione politica per bloccare sul nascere la crescita dei movimenti, delle associazioni operaie e dei lavoratori e dei partiti di ispirazione socialista, che condannò degli innocenti, lasciando liberi di continuare a seminare terrore e morte i veri colpevoli: le guardie campestri al soldo della mafia e i gendarmi di Stato. Crispi, in Parlamento, giustificò le stragi mistificando i fatti: era stata fatta circolare ad hoc la voce di un sostegno francese ai fasci italiani, tacciati di ispirazione separatista. Le stragi pertanto erano un atto dovuto, in difesa dell’unità nazionale: ottenne un consenso pressoché unanime.

I moti insurrezionali in Luinigiana

La proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia indignò tutta l’Italia e nelle maggiori città, si crearono spontanee manifestazioni di popolo, spesso represse dalle forze dell’ordine. A Carrara, contro la crisi dell’industria del marmo, fu indetto uno sciopero per il 13 gennaio 1894 e negli scontri che si susseguirono anche nei dintorni, i militari uccisero una decina di dimostranti e fecero diversi feriti. Contemporaneamente, Crispi sottopose il decreto di stato d’assedio della Lunigiana a Re Umberto I, che lo firmò. Fu puntualmente istituito un tribunale militare, che condannò per direttissima 300 rivoltosi, alcuni sottoposti ai domiciliari coatti, altri confinati. L’avvocato Luigi Molinari, ritenuto ispiratore della rivolta, fu condannato a 20 anni di carcere.

I ferrovieri

Il 16 gennaio 1902 la Federazione dei ferrovieri minacciò lo sciopero per rivendicare aumenti salariali e una più umana qualità del lavoro. Giolitti tentò di usare il pugno duro, ma di fronte alla minaccia socialista di togliere l’appoggio al governo, concesse gli aumenti salariali richiesti.

Gli scioperi femminili di Milano, le piscinine e la legge sul lavoro femminile                   

A Milano gli operai della Pirelli ottennero gli aumenti salariali e una più dignitosa organizzazione del lavoro, ma fece scalpore la protesta delle apprendiste sarte, cravattaie e stiratrici, con lo sciopero delle “piscinine”, bambine e adolescenti, tra i 9 e i 14 anni, che lavoravano 11-12 ore al giorno, sottopagate e per di più, sottoposte ad abusi e violenze nelle strade e nelle fabbriche. Stessi diritti delle piscinine rivendicavano le operaie del settore cotoniero, finché l’indignazione popolare per lo sfruttamento della manodopera femminile non si allargò all’intero stivale, tanto che la Camera approvò la legge sulla protezione del lavoro minorile e femminile. La norma elevava a 12 anni l’impiego minorile e fissava in 12 ore lavorative il massimo di una giornata lavorativa femminile nelle fabbriche. Il 29 giugno 1902 fu istituito a Roma, presso il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, un organo collegiale e consultivo, con il compito di proporre la regolamentazione dei doveri e dei diritti del lavoro e del capitale.                                                                                     

L’esito positivo di alcune vertenze non significò che fosse garantito a tutte le proteste. Così non fu infatti nel basso modenese, (marzo 1902) o a Mortara, dove le richieste furono tutte respinte o nella Lomellina, dove gli scioperanti furono sostituiti con manodopera assunta dai paesi limitrofi. A Cassano delle Murge, nell’agosto 1902, una manifestazione dei lavoratori della terra per i miglioramenti salariali, fu repressa dalla forza pubblica, con un 1 morto e 4 feriti. A Candela (8 settembre 1902), sui contadini che rivendicavano una tariffa salariale fissa per gli stagionali e aumenti economici per i giornalieri, i carabinieri ne uccisero 7 e ferirono 40.                                                 

 Anna Kuliscioff e la proposta di  riforma elettorale                                 

Il 28 aprile 1910 Luigi Luzzatti (incaricato di formare il governo il 31 marzo) illustrò alla Camera il suo programma, improntato all’orientamento laicistico dello Stato e un pacchetto di riforme sociali, tra le quali quella del Senato e quella elettorale, ottenendo la fiducia a larga maggioranza, sostenuta anche dai socialisti, fautori di una proposta di legge elettorale a suffragio universale maschile. Anna Kuliscioff, compagna di Turati, dalle pagine di “Critica sociale” sferrò un attacco al suo convivente, accusandolo di disinteresse per il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Il 2 maggio gli indirizzò una lettera nella quale rivendicava con orgoglio l’impegno del movimento femminile per il diritto di voto. La legge sul suffragio universale maschile sarebbe stata approvata solo il 25 maggio 1912, ampliando il diritto di voto a tutti i cittadini maschi maggiorenni (21 anni) in possesso dei requisiti censitari e capacitari previsti dalla legge elettorale del 1892 o, in assenza, che avessero assolto il servizio militare, nonché maschi nullatenenti e analfabeti, che avessero compiuto 30 anni. Promulgata il 30 giugno 1912, la legge allargava la platea degli aventi diritto al voto dal 9,5 al 24% della popolazione.

Eccidi di Baganzola, Comiso e Roccagorga – Mussolini prima maniera                                       

Il giorno dell’Epifania (6/1) del 1913 le forze dell’ordine caricarono inermi manifestanti uccidendone 8 e ferendone 50, tra Baganzola di Parma, Comiso (RG) e Roccagorga (LT). L’indomani Mussolini (una figura di spicco, figlio di un fabbro di Predappio, che era già stato Segretario dei giovani socialisti nel forlivese e aveva diretto un suo periodico, L’idea socialista, ribattezzato Lotta di classe e dal 1912 direttore de L’Avanti!), su L’Avanti da lui diretto, intitolò un articolo “Omicidio di Stato”, col quale condannava gli eccidi proletari consumati sulla pelle di indifesi cittadini, annunciando: “Il nostro è un grido di guerra. Chi massacra sappia che può ess ere massacrato”, dando il via a una grossa campagna mediatica del giornale contro il governo. Per quell’articolo, Mussolini subì denuncia per vilipendio, fu processato e assolto. L’indignazione suscitata dagli organi di stampa per quegli eccidi, costrinse il governo a risponderne. Il Sottosegretario all’Interno, Alfredo Falcioni, che relazionò per il Governo, eluse le risposte e, oltre a fornire un’ambigua ricostruzione dei fatti, incolpò i manifestanti ed elogiò l’esercito per l’alto senso di responsabilità nell’esercizio dei propri doveri. Le interpellanze dei deputati, nonostante prove e testimonianze documentate di quegli accadimenti, rimasero senza risposta.                                                                                                                                                

A completare il quadro storico avvincente e denso di avvenimenti, il lavoro riporta un’appendice con gli eventi della campagna d’Africa, fino allo scoppio della Prima Guerra mondiale. Un libro indispensabile per chi non conosce la Storia o per chi volesse approfondirla.                                        

Alla presentazione, presso il Museo civico, sono intervenuti: Eleonora Savino (figlia), Carla Moccia (Vizio di Leggere), Enrico Franza (sindaco di Ariano), Andrea Covotta (Rai Quirinale), Ottavio Di Grazia (studioso e scrittore), Luigi Lambiase (coordinatore Book zone).

NICOLA SAVINO                                                                                                                                               All’origine della coscienza di classe – Un quarto di secolo di lotte operaie e contadine (1889-1914) Ed. i Robin & sons                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

                                                                                                                              

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              

                                   

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Educare alla parità di genere – tra pari”, domani la presentazione del progetto presso la Sala Conferenze del Palazzo degli Uffici

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L’Amministrazione Comunale di Ariano Irpino venerdì 22 novembre 2024 alle ore 10,30 presso la sala Conferenze del Palazzo degli Uffici presenta un progetto che si rivolge  agli studenti della scuola secondaria di II grado per Educare alla parità attraverso l’ innovazione didattica, dal titolo  “Educare alla parità di genere – tra pari”.

Il progetto didattico “Educare alla parità di genere – tra pari” presentato dalla dott.ssa Rossella Schiavo, responsabile del Centro Antiviolenza ANANKE dell’Ambito Territoriale A1 con sede ad Ariano, ha lo scopo di prevenire atti di violenza contro le donne attraverso percorsi educativi e formativi destinati alle studentesse e gli studenti delle scuole secondarie di II grado di Ariano in via sperimentale e nella forma di ricerca – azione.

Il progetto prevede di coinvolgere un numero di studenti delle classi terze e dopo la formazione essi stessi opereranno nei gruppi di studenti del proprio istituto secondo il modello didattico “pear to pear”. 

L’iniziativa nasce dall’intesa tra gli Assessorati all’istruzione e alle Politiche Sociali, l’Azienda Speciale consortile per le politiche sociali dell’Ambito Territoriale A1 e le scuole superiori di Ariano.  Dopo la sperimentazione il progetto sarà esteso alle altre scuole del territorio.

Dopo i saluti di:

Enrico Franza

Sindaco di Ariano Irpino

Laura Cervinaro

Consigliera Provinciale

Augusto Morella

Presidente Azienda speciale consortile per la gestione delle politiche sociali   Provincia di Avellino n. A1

Pasqualino Molinario

Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Ariano Irpino

Grazia Vallone

Assessore all’Istruzione e  alle Politiche Giovanili del Comune di Ariano Irpino

Interverranno:

Rossella Schiavo

Psicologa – Azienda speciale consortile Avellino A1 – Sportello “Ananke”

Tiziana Aragiusto

Dirigente Scolastica, reggente ISS “De Gruttola”

Massimiliano Bosco

Dirigente Scolastico, ISS “Ruggero II”

Giovanni Mingione

Dirigente Scolastico, reggente Liceo “P. P. Parzanese”

Interventi degli studenti

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Rsu Ispettorato del Lavoro: solidarietà alle colleghe aggredite a Sirignano, necessario  garantire sicurezza dei dipendenti

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La Rappresentanza sindacale unitaria dell’Ispettorato territoriale del Lavoro di Avellino, composta da Mario D’Andrea, Carminantonio Vacchiano e
Maria Luisa Candela, nell’esprimere piena solidarietà alle due colleghe aggredite nei giorni scorsi in un’attività commerciale di Sirignano, mentre svolgevano il proprio lavoro, approfittando della presenza in città di alti dirigenti dell’ente, giunti appositamente presso la sede dell’ufficio per manifestare la vicinanza dell’amministrazione per quanto successo e approfondire la vicenda, ha avuto un confronto con il direttore centrale Vigilanza e Sicurezza del Lavoro dell’Ispettorato nazionale, dott. Aniello Pisanti, con il direttore interregionale Inl, dott. Giuseppe Patania, e con il direttore dell’Ispettorato territoriale di Avellino, dott. Francesco Damiani, che nella mattinata di ieri si sono incontrati, a Palazzo di governo, con il Prefetto, Rossana Riflesso.

L’intento della Rsu è individuare soluzioni idonee a gestire una situazione che ormai sta diventando insostenibile per gli ispettori che quotidianamente, nello svolgere le proprie mansioni, si imbattono in situazioni rischiose, diventando nei fatti lo sfogatoio di tensioni sociali, ma anche i destinatari di atteggiamenti e comportamenti incivili e aggressivi, da parte di alcuni degli utenti sottoposti a controlli.

Per quanto ci riguarda, abbiamo quindi chiesto maggiore attenzione e tutela anche per il personale adibito al front office, che costantemente deve rapportarsi con il malcontento dell’utenza, che non di rado degenera in invettive e minacce all’indirizzo degli addetti.

Da parte dei tre dirigenti abbiamo registrato ampia disponibilità a recepire le nostre osservazioni e ad intrattenere un confronto costante, in un’ottica di collaborazione costruttiva, nell’interesse esclusivo dei dipendenti degli uffici, in modo che possano svolgere le proprie funzioni istituzionali nella massima tranquillità.

Venendo al grave espisodio occorso alle colleghe, l’altro giorno, quando le due ispettrici del lavoro si sono presentate e qualificate all’atto dell’accesso ispettivo, il titolare della ditta ha reagito con violenza contro una di loro, strattonandola con forza mentre stava procedendo all’identificazione di una lavoratrice, impedendole di raccoglierne le dichiarazioni, in modo da agevolarne l’allontanamento, anche su energico invito della madre di quest’ultimo, presente nel negozio. Nonostante le ispettrici abbiano immediatamente chiesto l’intervento dei Carabinieri della stazione di Baiano, tramite il 112, che sono sopraggiunti in loco, il titolare della ditta e i suoi congiunti hanno ripetutamente oltraggiato e aggredito verbalmente le ispettrici del lavoro, rovesciando persino il tavolo sul quale stavano redigendo il verbale, colpendo così ad una mano una delle colleghe, procurandole una frattura ad un dito. Si è pertanto reso necessario l’intervento dei sanitari, anche a causa di un malore accusato dall’ispettrice colpita, a seguito della situazione, e il trasporto presso il Pronto Soccorso dell’azienda ospedaliera Moscati di Avellino, dove i medici hanno riscontrato la frattura alla mano e un innalzamento della pressione arteriosa, con una prognosi di 25 giorni.

A seguito di quanto è successo, ci è stato riferito che sarà convocato, in tempi brevi, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, con l’obiettivo di garantire un maggiore supporto all’attività ispettiva, in termini di forze dell’ordine.

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La lega marcia, mentre l’opposizione tace sulla Questione Meridionale e sul referendum

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La Corte Costituzionale ha assestato un duro colpo alla legge 86/2024 targata Calderoli, ha cassato sette commi e indicato cinque prescrizioni a cui attenersi per riscrivere il testo. La casa è abbattuta ma non polverizzata, e Calderoli è ben determinato a modificare la legge in parlamento. I rilievi della Consulta sono chiari: non si possono trasferire intere materie ma solo specifiche funzioni, la richiesta va motivata e sempre che lo Stato Centrale non sia in grado di svolgere questa funzione nel rispetto del principio di sussidiarietà; la delega al governo per la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) non può essere generica; i LEP non possono essere definiti e rivisti con DPCM (Decreto Presidente Consiglio dei Ministri); deve essere eliminato il criterio della spesa storica e le regioni sono obbligate a  rispettare il patto di stabilità al fine di prevenire inefficienze di sistema e la crescita della spesa pubblica; il parlamento non può solo ratificare le intese, fra il governo e le regioni, ma deve approvarle e rinviarle per un nuovo esame. Le opposizioni esultano, manca, però, un’azione volta a rimettere al centro dell’agenda politica la Questione meridionale, causa ed effetto delle disuguaglianze tra le due aree del paese. Né l’opposizione ha riaffermato la necessità che il referendum, richiesto da oltre 1,2 milioni di cittadini, sia celebrato, in tal modo, si impedisce ai cittadini di partecipare al dibattito pubblico sul regionalismo differenziato, sin ad ora, svolto solo nelle sedi istituzionali oppure nelle segrete stanze. In tal modo il silenzio dell’opposizione rafforza la proposta del governo Meloni di ritenere oramai inutile il referendum e non pongono in campo l’offensiva per spazzare via lo Spacca Italia.

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