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Sport, giornalismo e ilari banalità

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Lo sport in genere ed il calcio in particolare sono, nel nostro Paese, grandi catalizzatori oltre che di interessi economici anche di interesse collettivo come ampiamente dimostrato dalla pubblicazione, in un contesto di scarsa lettura di massa, di ben tre quotidiani esclusivamente sportivi in aggiunta alle numerose pagine dedicate alle competizioni agonistiche in tutti gli altri giornali, ai siti web e con la buona compagnia di innumerevoli trasmissioni televisive nazionali e locali che precedono e seguono le dirette delle gare.

Tutti questi palinsesti devono pur essere riempiti di contenuti e, al fine di soddisfare questa esigenza, una grande rilevanza hanno le interviste ai protagonisti dell’agone sportivo. E proprio su queste e sulla loro banalità vorrei scrivere qualche mia riflessione.

Ma, per completezza di pensiero, non posso sottrarmi dallo stendere qualche nota anche sulla stragrande maggioranza degli articoli o dei commenti televisivi, che ricevono dignità di pubblicazione solo per necessità di riempimento degli spazi cartacei ed eterei.

E si comincia dal calcio mercato quando, parlando della trattativa per acquisire le prestazioni di un atleta, si scrive che costui “è nel mirino” della tal società quasi come fosse un bersaglio da impallinare o una vittima da sacrificare. Al tempo stesso ogni trattativa viene condotta “sotto traccia” come se si trattasse di un incarico di intelligence spionistica e le “bufale” o le notizie inventate per attirare i lettori vengono presentate come “indiscrezioni” che ovviamente accreditano la testata di agganci con importanti benché sconosciute fonti di informazioni. E se una società cerca sul mercato un portiere o un attaccante, per non sbagliare, si parla del suo interesse per una miriade di atleti nella speranza di indovinare quello che poi, forse, sarà ingaggiato. Una volta perfezionato e depositato il contratto si parla inevitabilmente di “colpo” (termine in stretta correlazione con mirino) a prescindere dalle effettive qualità del prescelto e dalla sua età. Sotto quest’ultimo profilo tutti i ragazzi tesserati, piuttosto che essere definiti sconosciuti, sono immancabilmente “giovani molto promettenti dalle interessanti prospettive” mentre quelli che hanno superato, anche di molto, la trentina non vengono qualificati come individui in pre-pensionamento agonistico bensì come “esperti”. Allo stesso modo il calciatore le cui caratteristiche tecniche non sono ben chiare e il cui impiego in campo non è ben definito viene qualificato come “fantasista”. In ogni intervista al nuovo arrivato non possono mancare la lusinga relativa “all’importanza della piazza” in cui si è approdato quantunque sia la piazzetta di una modesta cittadina di provincia con non più di mille spettatori a partita; i complimenti al pubblico, soprattutto quello della curva, che “fa venire i brividi” e l’espressione della piena soddisfazione per l’ingaggio, che era proprio quello che si voleva fin dall’inizio del mercato, benché perfezionatosi sul gong delle trattative proprio per mancanza di qualsiasi alternativa. La presentazione di ogni gara, in sede di interviste, segue un protocollo standard. Se si parla dell’avversario che giace sul fondo della classifica, si dice che “la classifica è bugiarda” viceversa, se naviga nelle alte sfere, si dice che “la classifica parla da sola”. Se viene da un filotto di sconfitte, si dice che ha voglia di rivalsa viceversa, dopo una serie di vittorie, si parla di avversario in salute. In entrambi i casi capita nel momento peggiore per affrontarlo. Se in una squadra gioca qualcuno che ha militato nell’altra, non può mancare il riferimento all’ “ex col dente avvelenato” quasi si trattasse di una vipera piuttosto che di un serio professionista. Se si ha notizia che gli atleti sono in rotta con l’allenatore, si presenta la gara scrivendo che i primi faranno di tutto per dimostrare il loro attaccamento al mister, del quale magari non vedono l’ora di liberarsi. In ogni caso si conclude con la classica affermazione “noi andremo in campo per fare la nostra partita” come se si potesse fare la partita di qualche altro; per “portare a casa il risultato” (uno dei tre possibili sarà senz’altro portato a casa); con “rispetto ma senza timore riverenziale” anche se si gioca in casa della capolista e “per imporre il nostro gioco” anche se la prestazione è stata impostata solo sulla difensiva.

Se la squadra di cui si parla deve fare a meno di alcuni calciatori per squalifica o infortunio, si delineano nelle interviste alcuni atteggiamenti tipici e ripetitivi: prima della partita, per non deprimere l’ambiente, si dice sempre che “i sostituti non faranno rimpiangere gli assenti”; dopo la partita, in caso di sconfitta, si dice che “tenuto conto delle numerose assenze e della necessità di schierare alcuni giovani (quelli peraltro già definiti molto promettenti) non si poteva far meglio”, ma che “non si ha nulla da rimproverare ai ragazzi” anche in presenza di qualche palese svarione ed indolenza, poiché “hanno dato tutto quello che avevano”.

Anche il modo per giustificare una sconfitta è sempre lo stesso. Una volta si parlava di “sfortuna”. Poi, in maniera più raffinata, si sentenzia che la gara “è fatta di episodi” (ma guarda un po’!) che “per noi oggi hanno sempre girato nel verso sbagliato”. Una volta si dava volentieri la colpa all’arbitro o ai suoi assistenti ovvero si diceva “dell’arbitro non parlo altrimenti mi becco una squalifica”. Poi, in epoca recente, con l’introduzione della tecnologia almeno nelle competizioni maggiori, questo fenomeno si è attenuato, ma neanche tanto soprattutto nell’interpretazione di alcuni falli come quello di mano.

Taluni deprecabili atteggiamenti come l’espulsione per un inutile fallo di reazione o per un’offensiva espressione rivolta all’arbitro o l’ammonizione per lo stupido gesto di togliersi la maglia dopo una rete sono sempre pubblicamente giustificati con la “giovane età”, come se la disciplina non si dovesse imparare da “piccoli”, oppure con “lo stress agonistico e l’adrenalina”, come se fossero componenti di una conversazione salottiera invece che di una prestazione sportiva, ovvero con “la gioia per aver segnato”, come se questo evento non fosse un obiettivo del tutto normale per una persona che mira a ciò e come se non fosse possibile esultare in altro modo.

I commenti più tipicamente giornalistici sono infarciti dall’uso smodato della terminologia bellica. Una gara fisicamente impegnativa diventa una “battaglia”; l’attaccante è un “bomber” e, se come spesso accade non è prolifico, ha “le polveri bagnate”; una strenua difesa è un “bunker”; l’attacco, soprattutto se scriteriato, è un “arrembaggio”; un calciatore coriaceo è un “panzer”; un tiro forte è una “bomba” e, se da lontano, diventa un “missile” spesso “terra-aria”; una vittoria in trasferta è un “blitz” ad opera di una squadra “corsara” (forse sarebbe stato meglio dire pirata perché i corsari difendevano e non depredavano le navi) e lo stadio di casa deve diventare un “fortino inespugnabile”.

Per altro verso le banalità si adattano ai protagonisti: la prodezza di un calciatore della propria squadra è qualificata un “eurogol” (non so fuori Europa come viene definita), se invece la stessa prodezza è opera dell’avversario, è svilita al rango di “tiro della domenica” benché ormai si giochi in tutti i giorni della settimana. Così come una bella parata del proprio portiere è una prodezza, mentre quella del portiere avversario è un “miracolo” quasi non fosse merito suo, ma di qualche intervento divino.

In presenza di reiterati infortuni muscolari, patiti dallo stesso calciatore, nessuno ha il coraggio di ipotizzare che costui non abbia una muscolatura adatta a fare quel mestiere mentre, nel caso di infortuni della stessa natura che affliggono una pluralità di atleti, è vietato insinuare che lo staff tecnico o medico non sia all’altezza del compito o che il direttore sportivo abbia preso una serie di fregature al mercato.

Al campionario delle banalità danno un grande contributo i tifosi da bar dello sport con le loro ripetitive affermazioni che “il pubblico è il dodicesimo uomo in campo” laddove è notorio che il pubblico serve per portare soldi alle casse societarie e, se violento, indisciplinato e contestatore, può fare solo danni mentre non ha mai spinto un pallone in porta né ha mai evitato di subire una rete; che “vogliamo in campo undici leoni” mentre talvolta sarebbe meglio avere undici volpi furbe ed intelligenti e che i loro beniamini devono uscire “con la maglia sudata”, cosa estremamente facile, a prescindere dal prodotto di tale sudore, che è cosa molto più importante e difficile.

In questo disarmante contesto di banalità, propinate col ritmo frenetico di pubblicazioni quotidiane e trasmissioni televisive tambureggianti nell’arco della giornata, al lettore ed allo spettatore appena un po’ disincantato, non resta che rimpiangere non dico il frasario dei Maestri come Gianni Brera ed i suoi “abatini”, come Alfonso Gatto e le sue epiche scalate ciclistiche, come Gianni Mura o Sandro Ciotti con i suoi “cieli da cartolina souvenir”, ma addirittura le ingenue, ma non contestabili ovvietà di un altro Maestro, questa volta di calcio e non di giornalismo, Vudjadin Boskov con le sue celebri affermazioni: “rigore è quando arbitro fischia” e, “partita finisce quando arbitro fischia”.

Rodolfo Daniele già magistrato e appassionato di calcio.

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Pallavolo Serie D – Esordio fuori casa per il GSA Pallavolo Ariano

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Dopo aver conquistato nella scorsa stagione la promozione in serie D, la Coppa e la SuperCoppa IrpiniaSannio,  il GSA PALLAVOLO ARIANO sabato 2 novembre scende in campo a Cava dei Tirreni per la prima gara del campionato di serie D maschile.

La partita inizierà alle ore 19.30 per dare avvio ad una nuova fase agonistica che il GSA intende giocare  per l’alta classifica.

Confermato lo staff tecnico con Giulio Filomena e Nico Medici a guidare il gruppo nel quale saranno ancora  G. Santosuosso, L. Guardabascio e R. Caso  punti di riferimento per giovani promettenti come M. Molinario, M. Ninfadoro , C. Capozzi e P.Borriello. La qualità non manca nel resto della squadra con  G. Ricciardi, A. La Luna, L. Schiavo, H. Chiaradonna, A. Iandoli, T. Barrasso , M. Toriello  a disposizione dei tecnici per dimostrare di  valere la categoria.

Per questa importante avventura regionale, la società arianese è pronta  anche a lanciare i giovanissimi dell’Under 17 che già hanno messo in mostra il loro positivo spessore con una vittoria per 3-0 nel debutto casalingo con i pari età dell’Academy nel torneo territoriale di categoria.

Per l’esordio fuori casa gli arianesi dovranno aspettarsi una gara difficile e confrontarsi con un avversario molto solido; il fattore campo può aiutare i cavesi, ma il GSA deve subito metabolizzare le difficoltà della serie regionale e scendere sul parquet con la consapevolezza di saper imporre il proprio gioco  per conquistare la vittoria.

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Giornata delle Forze Armate – Il 4 Novembre ad Ariano la cerimonia per il Giorno dell’Unità Nazionale

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L’Amministrazione Comunale di Ariano Irpino, in una sobria e solenne cerimonia, vuole  commemorare i Caduti di tutte le Guerre, rendere omaggio alle Forze Armate, celebrando la Festa dell’Unità Nazionale, in ricordo della fine della prima Guerra Mondiale.

Appuntamento lunedì 4 novembre 2024 alle ore 10,00 al Piano della Croce presso il Monumento ai Caduti dove, alla presenza delle Autorità Civili, Militari e  Religiose, verrà   deposta la   Corona di alloro, sulle note dell’Inno Nazionale.

Una  Corona di Alloro verrà deposta anche davanti al busto di Giulio Lusi in Villa Comunale e nell’atrio di Palazzo di Città.

Il messaggio istituzionale  è rivolto alle nostre giovani generazioni, per non dimenticare  i nostri Caduti in Guerra, morti per gli ideali risorgimentali di indipendenza, di libertà, di democrazia che hanno determinato l’Unità d’Italia ed esprimere riconoscenza per coloro che ancora oggi rischiano la vita al Servizio della Comunità.

La cittadinanza  è invitata a partecipare.

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Roberto Zaffiro: vi racconto la mia Africa e vi invito a diventare benefattori

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Imprenditore nel settore edile (azienda di dieci dipendenti), insieme ad altri due fratelli, sposato e con due figli, Roberto Zaffiro, con il pieno sostegno della famiglia, si dedica anima e corpo alla missione che lo appassiona e gratifica di più: dalla costruzione di pozzi e scuole, ai presidi ospedalieri, in Africa. Il 5 novembre partirà per la Nigeria e in gennaio per il Benin

“Un tempo ero laico, poi a 37 anni, 20 anni fa, c’è stata la mia conversione, a seguito del viaggio a Medugorje, – ci racconta. Il senso di solidarietà l’ho però sempre avuto nel DNA, tanto che ogni volta che ho girato il mondo, ho sempre elargito del denaro, ai bisognosi che mi è capitato di incontrare”.  

                                                                                                                                            

Quando hai capito che la tua missione era dedicarti in maniera più completa agli altri?                                                                              

 La svolta a seguito del viaggio a Medugorje. Fino ad allora ero stato una sorta di superficiale credente praticante, che girava il mondo, compresa l’Africa, anche in moto, e non dava grande importanza ai sacramenti e alla preghiera. In quel luogo, come se avessi improvvisamente intuito le mie miserie e fragilità, ho pianto molto e ho capito che dovevo cambiare la mia vita e relazionarmi in maniera diversa con Dio. È cominciata così la mia conversione, incrementando anche la frequentazione della Chiesa, finché a Montevergine (AV) non ho incontrato padre Jean Baptist, sacerdote originario del Benin (Diocesi Kandi-Benin), specializzatosi a Roma. Siamo diventati amici e, dopo che mi ha mostrato le carenze d’acqua nel suo villaggio, gli ho donato un pozzo. Quando è tornato in Africa, mi ha fatto promettere che sarei andato a trovarlo. Nel 2012 l’ho raggiunto e ho cominciato a guardare l’Africa con occhi nuovi, mi sono reso conto della vita di sofferenza della popolazione: bambini e adulti che bevevano dalle pozzanghere esponendosi a malattie, quando non la morte, bambini costretti a percorrere chilometri con le taniche in testa per approvvigionarsi dell’acqua. Un pozzo è una fonte di acqua viva utile a diverse comunità, talvolta serve fino a diecimila persone o più (dipende dalla grandezza dei villaggi) e nel tempo, cambia radicalmente la loro vita: cominciano ad allevare animali, a praticare l’agricoltura. L’acqua è di interesse primario: il 60-70 per cento dei nostri fondi li impieghiamo nella costruzione dei pozzi, a cui facciamo seguire attività ambulatoriali, considerando che, per accedere all’assistenza sanitaria, bisognerebbe percorrere centinaia di chilometri e talvolta non c’è il tempo, né la possibilità, di farlo. Molte malattie derivano dalla mancanza di igiene, dal fatto che non ci si può lavare: da una banale diarrea si passa alla febbre, inizia la sofferenza, che diventa acuta, poi grave e infine, può portare alla morte. Un piccolo presidio sanitario, con almeno uno-due infermieri e un medico, serve a trasmettere i fondamenti dell’igiene necessari a prevenire diverse malattie, anche se, per quelle più gravi, bisogna recarsi presso gli ospedali. Agli ambulatori cerchiamo di affiancare la promozione dell’istruzione di base che consenta ai più poveri, che non possono permettersi la scuola, almeno di difendere i diritti propri e della famiglia: l’istruzione emancipa e salva il mondo.                                                                                                                                                                             Come individuate dove costruire un pozzo?    

                                                                                                                                                   

Primo step individuare il punto, poi una sorta di rabdomante, col talento sensibile nelle mani, scopre dove potrebbe esserci più acqua, quindi arriva la trivella, che in genere scava per 4-5 ore, con tutta la popolazione intorno, che festeggia il grande evento, che cambierà la loro la vita. Il primo getto d’acqua, è un vero spettacolo: vediamo la gioia dei bambini e della gente. Documentiamo tutto in diretta e lo postiamo sui social, poi, a fine missione, montiamo un filmato che mostreremo ad amici, conoscenti e benefattori, nonché a chi volesse diventarlo. Vogliamo dimostrare che facciamo opere concrete e cerchiamo di renderci utili, per alleviare almeno in parte, la sofferenza di quelle popolazioni. Realizzare un pozzo costa circa 7-8 mila euro, ma dipende dal luogo, dalla quantità e dalla profondità del terreno. Un ambulatorio sanitario, così come una scuola, costa intorno ai 20-30 mila euro, a seconda delle dimensioni.                                                                                             

Finora abbiamo realizzato 24 pozzi in Benin, uno in Malawi e 5 in Nigeria, che servono una popolazione complessiva di circa 350 mila abitanti.  

                                                                                                                                                                

La strada la preparano i religiosi, che, oltre alle lingue locali, compresi i vari dialetti, parlano inglese, francese ed italiano. Con le loro diocesi, di dimensioni notevoli, sono radicati sul territorio, interloquiscono coi capi villaggio, i quali, al di là dei diversi credo religiosi, convivono senza combattersi. Ogni iniziativa la condividiamo con i capi delle comunità: acqua, sanità, scuola, sono per tutti, cristiani, musulmani, animalisti. Questo ci consente anche di approcciarci a quei territori senza temere per la nostra incolumità.

                                                                                                                                                                                                                                                                      

Con quali modalità raccogliete le risorse necessarie?     

                                                                                                                                       

  I fondi vengono raccolti sia con la promozione di giornate di beneficenza, sia nelle chiese, attraverso l’associazione Regina della Pace e Carità (con sede in Flumeri, AV), finalizzata a promuovere e gestire interventi di cooperazione allo sviluppo e progresso umano, economico e sociale, attraverso la costruzione di pozzi, scuole, ambulatori, orfanotrofi e chiese, nei Paesi in via di sviluppo. Nata allo specifico scopo della missione in Africa, la onlus è composta da 12 persone, 3 delle quali, sacerdoti africani. I sacerdoti, vivendo in Africa, conoscono il territorio e poiché ogni anno vengono in Italia, fermandosi per circa 40 giorni presso le parrocchie, ci aiutano a progettare le sfide che realizzeremo insieme. Sono loro i veri esecutori delle opere: i pozzi si scavano rapidamente in nostra presenza, ma per le altre opere che invece richiedono mesi, noi ogni anno andiamo a verificare ciò che è stato realizzato e lo inauguriamo insieme. Quest’anno abbiamo realizzato 3 pozzi in Benin e altri 3 ne realizzeremo entro fine anno in Nigeria: partiremo il 5 novembre, per tornare il 19. Per l’inizio del 2025 realizzeremo una chiesa e ancora 4 pozzi in Benin, nonché giornate sanitarie e visite agli orfanotrofi locali. Giacché abbiamo costruito tre ambulatori in Benin, tra cui un ospedale della maternità, promuoveremo la formazione sanitaria, invitando le popolazioni limitrofe, alle quali si insegnerà la prevenzione di base e doneremo dei medicinali, che, su indicazione dei medici locali, acquistiamo direttamente in loco o nelle città più grandi, che distano anche fino a 250 km. Spesso i bambini hanno la pancia gonfia dovuta ai vermi, così acquistiamo il farmaco per la sverminazione, che costa un euro e mezzo e salva loro la vita o la tachipirina, utile in caso di febbre alta. Molti bambini vengono abbandonati nella savana, se la famiglia a causa dell’estrema povertà non può mantenerli, oppure se malati o albini (pensano siano indemoniati), così suore, preti e laici, li raccolgono e li portano negli istituti religiosi dotati di orfanotrofi (30-40 posti), che però soffrono difficoltà economiche e alimentari. Quando li visitiamo, doniamo una metà delle offerte in beni materiali, riso, olio e latte in polvere, e il resto, tra i mille e i tremila euro (a seconda di ciò di ciò che siamo riusciti a mettere da parte), lo diamo alla struttura come sostegno economico. Cerchiamo di metterli in condizioni di andare avanti per qualche mese, di dare ai loro ospiti una speranza per il futuro. Nel 2026 in Malawi vorremmo realizzare un orfanotrofio per bambini abbandonati e disabili e 2-3 pozzi, per cui stiamo raccogliendo fondi e invitiamo chiunque potesse e volesse, a contribuire.                                                                                                                                                              

 Che altro fare per aiutare concretamente gli Africani?                            

                                                                                                        

  I governi locali dovrebbero preoccuparsi, per cominciare, di dare l’acqua, consentire l’istruzione e la sanità, che fornirebbe a quelle popolazioni i mezzi per progredire ed essere autonome a casa loro. In tal modo, non avrebbero bisogno di rischiare la vita sui barconi, per illusioni irrealizzabili. Purtroppo i loro governanti sono spesso dittatori che non hanno alcun interesse a metterli in condizioni di autosufficienza, ma preferiscono tenerli nell’ignoranza, per poterli gestire.                                                                                                                  

Dal canto nostro, immersi nel benessere, noi consumiamo cose inutili, sprechiamo e buttiamo. Vorrei esortare a pensare a chi ora sta soffrendo, destinando ciò che per noi è superfluo a chi invece ha necessità basilari. Per dirla con madre Teresa di Calcutta: la condivisione sconfigge la povertà.                                                      

 Siete in procinto di partire per la prossima missione…

                                                                                                                              

 Il 5 novembre partiremo per la Nigeria per due settimane. Sarò accompagnato da due nuovi benefattori, Giovanni Parrella di Motesarchio (BN), e Angela Ciasullo di Flumeri, che documenterà i lavori anche filmando e, per la missione, è riuscita a superare la sua antica paura per gli aghi, poiché ha dovuto vaccinarsi, e persino quella di volare. Ognuno di noi ha sostenuto autonomamente il costo del biglietto (1.000 €) e dei visti (300 €).                                                                                                                                                                              Dal 16 gennaio al 5 febbraio tornerò in Benin, ancora con Angela Ciasullo e i parroci: Don Alessandro Pascale, di Prato Principato Ultra, Don Alberico Grella, di Sturno, Don Rino Morra, di Bisaccia e chiunque volesse aggiungersi”. 

                                                                                                                                                                                                                                  

I prossimi eventi per raccogliere fondi e visionare quanto realizzato in Benin: sabato 30 novembre 2024 alle 20, cena di beneficenza (20 €) presso i Saloni dell’Oratorio ANSPI San Prisco (Via Grotte) a Passo Eclano (AV); domenica 8 dicembre 2024 a Zungoli (AV), ore 13 pranzo di beneficenza (25 €), presso il Convento San Francesco. Ulteriori informazioni (e prenotazioni) su: https://www.reginadellapaceecarita.org

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